“Via Fillungo” e Mariano Abignente
Anche la Città di Sarno, nella Valle dei Sarrasti, ha la sua Via Fillungo. E’ la strada principale del centro di Lucca dove trascorsi i miei cinque mesi da ufficiale di artiglieria per il servizio di leva. Una via lunga e stretta nella quale, di sera, andavamo a caccia di lucchesine. Una strada che è uno dei simboli più rappresentativi della bellissima Città di Lucca, centro delle attività turistiche, commerciali e artigianali dei lucchesi.
A Sarno non ci sono nato, ma è una Città che mi ha dato tutte le caratteristiche per essere considerato “sarnese”. Se andate su Googlemaps potete individuare il tracciato che va da una parte all’altra del paese, da Via Bracigliano a Via Abignente, passando per Piazza IV Novembre, la piazza del Municipio, dove si erge la statua di Mariano Marcio Abignente, uno dei tredici della Disfida di Barletta.
E’ molto più lunga ed anche diversa da quella di Lucca. Questa “fillungo” Sarnese si distende ai piedi del monte Saretto, il nucleo originario della moderna Città di Sarno. A metà percorso, vero centro storico cittadino, si erge il monumento a Mariano che guarda verso la Valle dove si è estesa la parte nuova della Città. Sono trascorsi oltre cento anni da quando venne eretto questo pregevole monumento. Il Cavaliere Mariano è stato testimone ferreo ed immobile della storia che è passata lungo questa “Via Fillungo”.
Almeno in parte, appartiene alla mia memoria. Ripercorro spesso questo “filo lungo” illudendomi di ritrovare un tempo che so, purtroppo, essere irrimediabilmente perduto. L’altro giorno mi sono reso conto che c’è qualcuno il cui tempo s’è fermato in questa piazza che ne ha viste di tutti i colori, vero cuore pulsante della comunità. L’immagine che vedete ne è la prova: una bandiera con la falce e il martello continua a sventolare sotto gli occhi di ferro di Mariano.
La Piazza è il vero centro storico di questo Paese che è diventata Città, in una Valle che era dei Sarrasti oltre duemila anni fa e che oggi è diventata un’altra realtà. C’è stato un tempo che Sarno era considerata la “Manchester del Sud Italia”. Quando ho visto quella bandiera a quel balcone il mio pensiero è andato al mio tempo vissuto in questa piazza. Una occasione per tessere il “filo lungo” dei ricordi.
Una cosa importante da dire quando si fa comunicazione è che bisogna fare attenzione se si parla di memoria. Questa viene quasi sempre offuscata dalla nostalgia per i tempi andati. Per questa ragione non amo gli “amarcord” e mi guarderò bene dal parlare in questo modo. Non correrò così il rischio di dire che “si stava bene quando si stava peggio”. Mi fa buona compagnia Sant’Agostino quando dice nelle sue Confessioni:
“Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa”.
Se dovessi fare una “mappazione” personale della mia memoria di questi luoghi, vie, strade, vicoli, negozi, portoni e balconi, la statua di Mariano si rianimerebbe, comparirebbero le ombre di tante persone che sono qui vissute e ho conosciuto. Non posso non partire che da questo monumento. Il centro vivo della città. Luogo storico dello spazio e della mente: Piazza Municipio. Un posto che è la somma di più luoghi.
Non vi sono nato ma è come se fossi sempre appartenuto a questo spazio, tra Via Fabbricatore, la Piazza, per poi scendere per via De Liguori. In queste poche centinaia di metri, segnati da tre punti di riferimento, cardini della memoria, si distendono altri luoghi che arricchiscono i miei ricordi. Dai piedi del monumento a Mariano c’è una “via di fuga”, per così dire, verso il corso principale che tutti conosciamo col nome di Rettifilo. I tre punti ai quali faccio riferimento personale portano un numero:
via Fabbricatore 14
via De Liguori 55
Piazza Municipio 5
Su questo percorso stradale rettilineo si innesta il Rettifilo, a forma di T. Questa lunga e storica strada porta altrove, facendo allungare la memoria fin giù all’incrocio dove la città di oggi ha disteso le sue lunghe braccia. A quei tempi, alla fine degli anni quaranta, i confini del centro erano altri. Era difficile andare oltre quel grande l’edificio scolastico, così carico di storia, che va sotto il nome di De Amicis.
I vari rami sotterranei del fiume che dà il nome alla Città attraversavano l’area, come suppongo ancora oggi, e confluiscono nello stesso stesso fiume. Sento che sono ancora lì, ma non si vedono. Era il confine. Da piccolo, potevo avere una decina di anni, mi vietavano di andare in quella zona che era chiamata “arret ‘o ponte”, specialmente di sera, luogo dove si potevano fare brutti incontri. Così dicevano.
Ricordo che mi incuriosiva il fatto che il fiume passasse sotto il basolato del Rettifilo, scorrendo trasversalmente a quello che era il grande spazio libero usato come campo sportivo, uno spazio dove l’erba non sarebbe mai attecchita. C’era un lavatoio con un piccolo rivo che lambiva l’antico Caffè all’angolo della piazza all’incrocio, se non ricordo male.
Ricordo anche alcune fasi dei lavori quando venne costruito il terzo piano sulla scuola De Amicis, le grandi uscite d’acqua, l’enorme quantità di pali gettati alla sua base per permettere la costruzione, le grandi difficoltà di dare solide fondamenta alla struttura. Oggi, questo edificio scolastico ha visto la scomparsa del terzo piano. Con esso sono sparite anche tutte le nostre memorie.
L’edificio sta per essere ricostruito e chissà quando riavrà la sua funzione. Di fianco ad esso, nel corso del tempo, hanno eretto un nuovo edificio chiamato “Teatro” un vero e proprio “intruso”. Io ed altri giovani di allora, “dinosauri” oggi, che scrivevamo su un giornale intitolato “L’ORA del Mezzogiorno”, una piccola voce fuori dal coro del tempo, non riuscimmo a bloccare i lavori. Anche quel genio folle di Vittorio Sgarbi, quando venne a Sarno, disse che quella costruzione era un “mostro”.
Era il tempo in cui i partiti politici locali avevano per simbolo anche una “cinque lire”. Miseria o nobiltà? Se questa e’, grosso modo, la geografia orizzontale della mia memoria, dovrei ora identificare quei numeri e quelle strade a cui ho fatto riferimento prima, cominciando un viaggio non solo in maniera orizzontale e verticale. Vedremo poi come:
- Al numero 14 di via Fabbricatore ci abitavo io, con la mia famiglia.
- Al numero 5, in piazza, c’era la tipografia “Arti Grafiche M. Gallo & Figli”.
- Al numero 55 di via Liguori c’era la casa della famiglia di mio padre.
Tre strade che sono come dei contenitori nei quali i ricordi trovano una gelosa ospitalità che non è soltanto mia personale, ma anche comune a tanti altri concittadini che in questi luoghi vivevano. Durante questo viaggio nel filo lungo della memoria aprirò delle finestre virtuali, facendo riferimento a questo “fillungo”. Chi non ricorda in via Fabricatore alcune presenze del tempo che hanno fatto la storia della città? Oggi vi regna il vuoto della memoria.
Il negozio di Giona l’armiere che esponeva lucidi fucili da caccia nel suo piccolo negozio proprio all’inizio della strada. Di fronte Il misterioso orefice don Carlino, di fianco la famosa pasticceria Angora, altrimenti nota col nome biblico di “Assalonne”, poi lo studio medico del dottore Fabricatore, il fotografo D’Alessio in concorrenza con quello più avanti in via Laudisio, Tambone. E ancora, il negozio di “Giulia ‘a Rossa”, la tipografia Scala, la libreria di Eduardo Scala, il fornaio “Tore ‘o Nero”, il negozio della “Stagione”, via via arrivando alla Farmacia Tura, dove ritrovo il ricordo della mia severa maestra elementare, sempre vestita di nero. Li ricordo tutti, specialmente l’edicola Oletto un tempo di “Giritiello & Giulina”.
Piazza Municipio io la ricordo come l’ombelico del mondo, una “Piccadilly Circus” della memoria sarnese dove ritrovo un po’ di tutto. Musica, politica, arte, religione, il sacro e il profano si confrontavano, mescolandosi, trasformandosi, diventando “altro”.
Gli altoparlanti ai piedi di Mariano Abignente che risuonavano della melodia delle “bandiere rosse”, lasciando l’uomo di ferro sempre impassibile. Come immobile restava al frenetico suono delle campane della Chiesa dei Frati Francescani che sembravano quasi voler addolcire gli epici scontri politici e idiologici. Ricordate Il Circolo dell’Unione, detto anche “dei signori”? un vero e proprio “covo” di rosicatori sociali.
In quelle stanze si “cazzeggiava” come si fa oggi sui social. Si facevano e disfacevano partiti, alleanze e amministrazioni, si giocava e si parlava sia di cultura che di corna, sottovoce, con stile. Il luogo ideale per discutere di tutto, senza sapere niente. La gloriosa sezione dei combattenti, i grossi palchi illuminati per la festa di Ferragosto, le grandi sfide delle bande musicali e le loro fughe dal palco in pieno concerto durante lo scoppio del classico temporale ferragostano.
All’angolo della piazza, tra via Fabricatore e il Rettifilo, c’era l’ufficio con il centralino della SIP. Ricordate? C’erano due signorine che ci lavoravano. Noi da ragazzini andavamo sempre a guardare curiosi, affacciandoci alla porta. Guardavamo con gli occhi aperti quella centralina alla quale quelle signorine parlavano con una cuffia in testa, infilando in un buco un filo che si chiamava “jack”.
Si alzava la cornetta del telefono, (beato chi ce l’aveva!), ti rispondeva la gentile voce femminile e ti chiedeva il numero con il quale volevi parlare. Lei inseriva il “jack” e ti apriva il collegamento. Si sapeva che con quella cuffia in testa le signorine potevano sapere tutto di tutti. Un’anteprima delle intercettazioni di oggi!
C’era poi la tipografia, in quel portone, di fianco al tabaccaio della “ ‘a Rossa”. Sul retro convergeva il retrobottega laboratorio di un’altra notabile pasticceria che si affacciava sulla piazza, quella di don Antonio Salerno. Entrando in quel portone potevi sentire l’odore dei dolci in cottura, un profumo che si mescolava con il puzzo acre e penetrante dell’inchiostro della macchine della tipografia che stampavano in continuazione messaggi di ogni genere, scritti da tutti i tipi umani, colti e ignoranti, buoni e cattivi, bianchi, rossi e neri.
Niente o quasi mi è rimasto della memoria cartacea di questa tipografia post-gutemberghiana, ed è un peccato. Impossibile ricordare o conservare tutto quello che ha stampato per circa cinquanta anni. In diverse occasioni ne ho parlato nei miei libri ed anche sul blog al quale rimando chi fosse interessato a saperne di più. Ma una memoria la voglio qui ricordare. Avevo i calzoni corti quando mio padre mi mandava a portare le bozze ad un prete autore di un libro che voi tutti ricorderete e che è un “classico” della storiografia locale: “La Storia di Sarno” in tre volumi.
Mi riferisco a Don Silvio Ruocco, antesignano di tutti i moderni storici locali. Sedicesimo per sedicesimo, percorrevo a piedi il viale Margherita, consegnando i fogli delle nuove bozze avendo cura di prendere anche le vecchie che lui voleva assolutamente. Era un tipo mica tanto socievole quell’omone prete che incuteva soggezione solo a guardarlo. Lo ricordo quando, con il suo bastone, bussava alla vetrina della tipografia, quasi sfondandola.
Preannunciava il suo arrivo, gettando il panico tra i compositori. Era un grande pignolo. Ci vollero diversi anni per portare a termine l’opera. Chi possiede l’edizione originale dei volumi potrà rendersi conto di quanto siano forti le differenze di questa edizione con quella fatta di recente poi dall’Editore Buonaiuto.
Sulla piazza si affacciavano, e tuttora sono presenti, altri due “portoni” oltre quello della tipografia. Nel primo, all’angolo del Rettifilo, dove c’era un negozio di ottica dell’amico Alfonso Liguori Rossi, c’era anche un locale dove per diversi anni andò in scena un “teatro dei pupi” molto amato e frequentato al tempo. Pupi a grandezza d’uomo, abilmente gestito da qualcuno di cui non ricordo il nome.
Subito dopo c’era il “portone rosso” per eccellenza. Le scale interne portavano ad un appartamento dove viveva una famiglia che ha fatto del suo impegno politico un ideale di vita. Mi sembra ancora di sentire le voci elettorali di un tempo in cui la politica sapeva avere anche un valore ideale e morale. Un’altra “finestra” sulla piazza e’ il ricordo di quella che fu, e ancora è, una libreria degna di questo nome. Si chiamava romanticamente “Amore mio”. Il fondatore, Rino, un grande amico, la intitolò a sua moglie, prematuramente scomparsa. Oggi continuano a tenerla in vita le figlie.
Proprio di fronte alla libreria c’è l’ingresso alla Chiesa di San Francesco, memoria religiosa della città. Di fianco c’è il portone di entrata che conduce, dopo di avere attraversato il chiostro, alle stanze del Convento che si snoda su due piani in continuità fisica con il vicino Municipio.
Il Convento merita un ricordo particolare per gran parte di noi oggi, giovani di allora. Dagli anni del dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta, e’ stato un punto di riferimento, un contenitore anch’esso di valori morali ed ideali oltre che, ovviamente, religiosi. Faceva da contraltare, e’ il caso di dire, al “balcone rosso” di cui ho detto innanzi.
Ricordo che in una di quelle stanze viveva qualcuno che mi introdusse allo studio della filosofia. Non era un monaco francescano, bensì un prete, che era ospite dei frati. Rispondeva al nome di don Luigi Fezza. La sua era una piccola stanza, ripiena di libri. Quando mi faceva lezione ero affascinato da quello che diceva. Ricordo che capivo ben poco. Non mi interrogava mai, non mi faceva mai ripetere, non mi chiedeva mai se avessi capito. Era un monologo incontrollato.
Ero capace di stare li seduto ad ascoltare per ore, il suo perfetto italiano. Accompagnava le sue parole con gesti della mano destra con la quale sembrava disegnare nell’aria il senso di quello che diceva. Ho imparato da lui ad amare la filosofia, ma non a capirla. Forse col tempo ci sarei riuscito se lui, che insegnava a Nocera, non fosse morto in un incidente stradale. Ogni mattina prendeva l’autobus. Quel giorno prese un passaggio con un camion.
Potrei dire tante altre cose sul Convento di Piazza Municipio. Come non ricordare fra’ Masseo e la sua dispensa, fra Ciro e la sua cesta per la questua, padre Baldini e le sue zuppe di cipolla per dimagrire, padre Olimpio Cuomo e la sua associazione, padre Gerardo Rispoli, padre Raffaele Squitieri amici fraterni e tanti altri frati che si prendevano cura di noi in tutti i modi possibili?
Chi eravamo, noi “dinosauri”? Ne posso ricordare, ovviamente, solo alcuni: Emilio Prisco, Aniello Agovino, Alessandro Salerno, Salvatore Monda, Enzino De Colibus, Andrea Ricupito, Battista Robustelli, Salvatore D’Angelo … Tutti a studiare nelle celle, a giocare a ping pong, a vedere i film in pellicola proiettati nel Cineforum del Chiostro … Un mondo scomparso, un mondo perduto e mai più ritrovato…
Scendendo verso via De Liguori, prima di arrivare al numero 55, i ricordi mi riportano ad altri luoghi e persone che concorrono a fermare il tempo. Chi non ricorda il negozio del vecchio Cerbone? Aveva spezie, dolci e caramelle di ogni specie. Poco distante, il farmacista Raiola distribuiva medicine a richiesta come da prescrizione con ricette su misura. Non c’era ancora la moderna farmacopea industriale. Qualcuno ricorda quella ricetta di “cetrato e cremone” che mia madre mi mandava a comprare?
Lui la confezionava pazientemente, pesando le dosi delle polverine col bilancino. Non ricordo se era una ricetta per fare i dolci oppure una purga! Per quest’ultima c’era anche il sale inglese. Più in la’ c’erano le indimenticabili signorine La Guardia, gentili cucitrici, ricamatrici e lavoratrici a maglia, testimoni di un’epoca in cui il tempo scorreva sul filo dei ricami. Poi di fronte sulle scale, cosiddette di Pasqua, trovavi la casa della famiglia De Colibus, più giù quella dei De Liguori. Chi non ricorda il caro dottor Enzino?
Proseguendo si arriva poi al numero 55 dove si trova quella che era la casa paterna. Ma poco prima, in un portone precedente, abitava la famiglia del dottore veterinario Alfonso Annunziata. Una delle poche persone nella mia vita che non dimenticherò mai. Una famiglia all’antica, integerrima e riservata. Alfonso era stato in America, ma questo grande Paese non gli era piaciuto. Aveva preferito ritornare in Italia. Con lui trascorrevo lunghe ore a parlare di tutto, sopratutto della sua passione per la lingua e la letteratura inglese.
Da lui imparai tanto e non ho mai dimenticato, io giovane sbarbatello, la sua grande sensibilità. Parlavamo mentre lui costruiva pazientemente navi e modellini in miniatura di tutti i tipi. Da mezzo secolo non lo vedo e non l’ho più incontrato. Ricordo che nel suo palazzo, a sinistra delle scale, c’era una sorgente di acqua solfurea. Una delle tante misteriose presenze sotterranee del fiume Sarno.
Sotto la casa paterna, al numero civico 55, a livello di strada c’era, credo ancora ci sia, una beccheria. I gestori di allora erano personaggi di un mondo scomparso. Oltre alla carne si vendeva anche il pesce, specialmente stoccafisso e baccalà. Tutto puzzava laggiù alle “quattro fontane” intorno a quel palazzo costruito su una delle sorgenti di un fiume tanto antico, quanto ricco di storia e di fauna ittica ormai vicina all’estinzione.
“Antonio e Idolella ‘a baccalaiola” ci consolavano nei pomeriggi d’estate con il giradischi ad alto volume, mentre Bobby Solo intonava per la centesima volta il suo ossessivo ritornello della canzone “una lacrima sul viso”. Di fronte c’era l’autorimessa di un altro personaggio storico sarnese “Ciccio ‘a Capocchia”.
Grandi battaglie e liti caratterizzavano quello spazio di strada che diventava un palcoscenico a cielo aperto, mentre io, affacciato alla finestra al primo piano dove abitava il Cavaliere Giuseppe Buchy, insieme alla mia prozia materna tramontina Maria, ci godevamo lo spettacolo. E che spettacolo! Zia Maria era venuta a servizio del Cavaliere da Tramonti, in Costa d’Amalfi, non so per quali misteriose vie.
Questo Cavaliere del Lavoro è uno di quei personaggi della storia di Sarno che meriterebbe un discorso a parte. Fu zia Maria a propiziare, guarda caso, l’incontro e il matrimonio tra mia madre e mio padre, uno dei cinque baldi giovanotti Gallo che abitavano al piano di sopra. C’era anche una sorella, zia Anna, grande ricamatrice, ma lei preferì emigrare negli anni venti negli Usa. Ritrovai il suo nome a Ellis Island, quando andai a New York qualche anno fa. Il suo sangue Gallo si trasfuse in Parziale, e questi sono sparsi in tutti gli USA. Ma questa e’ un’altra storia che deve essere ancora scritta. Ma il “fillungo” della memoria continua a dipanarsi.
Correva l’anno del Signore 1964 ed io ero appena ritornato dalla ruggente Inghilterra dei Beatles. Ho percorso oltre mezzo secolo di memorie a volo di uccello per questo “C’era una volta a Sarno” visitando luoghi, facendo rivivere persone e personaggi che molti concittadini “dinosauri” come me ricorderanno. Oltre mezzo secolo in una sorta di “Via Fillungo” in compagnia di Mariano. Sembra ieri. Nessun rimpianto, nessuna nostalgia del passato. Non mi faccio ingannare dai ricordi. Ho nostalgia del futuro.