Una generazione va, una generazione viene …

Antonio Gallo
9 min readJul 22, 2024

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Francesco, Domenico, Antonio, Caterina (con Rosalia), Felice, Mario, Michele Gallo. Manca Anna, la prima figlia. La foto le venne inviata in America dove era emigrata nel 1923

La vita è come un puzzle. Se hai la fortuna di arrivare ad una certa età, con piacere o dispiacere, puoi mettere insieme i pezzi del mosaico e, forse, comprendere molte cose. Con la dipartita di Rosalia Gallo, mia cugina, sono rimasto, in questa città, l’unico rappresentante, per così dire, di una generazione, quella della famiglia di mio Padre. Lui era del 1906. Tutto accadde al “centro” della città di Sarno, tra via De Liguori, Piazza Municipio e Via Fabricatore.

… Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia. Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole …

Così scrisse Qoelet oltre duemila anni fa. Ma è veramente così? La morte di una persona cara segna un confine, un passaggio che ci costringe a riflettere non solo sulla vita di chi ci ha lasciato, ma anche sulla nostra esistenza e sul significato della memoria. La generazione che ci ha preceduto è caratterizzata da esperienze, lotte e sogni che ora rischiano di svanire con l’ultimo testimone.

La frase di Qoelet, pur evocativa, sembra trascurare il peso del ricordo e il dolore della perdita. La riflessione si fa personale. Si ha la fortuna, chiamatela anche piacere o privilegio, di mettere insieme i pezzi che compongono l’esistenza di ogni essere umano. L’aspirazione a dare un senso può essere appagata dando così un messaggio a chi resta. Questo cerco di fare con la scrittura, come figlio di una generazione di tipografi. Il mezzo rimane sempre il messaggio.

La mia generazione, alla quale apparteneva Rosalia, è stata segnata da eventi storici e sociali che hanno plasmato le nostre vite. Questa perdita non è solo un lutto personale, ma un simbolo della fragilità della memoria collettiva. La terra può rimanere immutata, le storie e le esperienze di chi l’ha abitata sono destinate a svanire se non vengono raccontate. In questo articolo, desidero esplorare il concetto di generazione scomparsa non solo attraverso la lente della mia esperienza personale, ma anche attraverso le storie di coloro che meritano di essere ricordati. Mettere insieme i pezzi del puzzle e cercare di capire il senso del mosaico della vita.

La memoria è un atto di resistenza, un modo per onorare le vite vissute e per mantenere viva la fiamma della speranza per le generazioni future. Non so davvero da dove cominciare questa resistenza, quanto mai passiva. Come difendermi dall’onda dei ricordi che diventano ombre troppo lunghe di un “corpo” diventato sempre più “breve”. Il “centro” è quanto mai ristretto, i luoghi sono quelli che ho indicato, dove la memoria ritrova se stessa ogni qualvolta mi trovo a passarci.

E’ il centro storico di una Città, in un territorio molto antico, risale a prima della fondazione di Roma. Non ci sono nato, ma è diventata la mia città adottiva. Confesso di non essere mai riuscito ad appartenervi. È difficile far parte di una realtà che non ti senti di condividere. Dei moderni Sarnesi/Sarrasti ci sarebbe molto da dire, ma questo merita un discorso a parte. Per il momento questa considerazione mi serve per contestualizzare il mio pensiero.

Il tempo scorre veloce, condiziona lo spazio e lo trasforma. Quando ero giovane avevo altre aspirazioni, cercavo nuove appartenenze, altre vie di fuga. Guardo la fotografia che correda questo post e si accende la coscienza. L’idea del flusso si applica in modo interessante alla fotografia, poiché le pratiche riguardano la cattura e l’espressione di pensieri e percezioni. La fotografia è spesso vista come un processo che riflette il flusso di coscienza di chi la fa.

In questo caso si tratta di una fotografia fatta da un fotografo verso la fine degli anni venti, del secolo e millennio trascorsi. Un professionista, uno scatto con quelle “scatole” di macchine fotografiche, secondo la tradizione del tempo, distanti anni luce da quelle di oggi con lo smartphone. In posa, nel salotto buono o in studio, cravatta e giacca per l’occasione. Lo “ status symbol” è importante.

Secondo alcuni, la fotografia è un “flusso di coscienza imperfetto”, in cui le immagini catturate non sono solo rappresentazioni visive, ma anche manifestazioni di pensieri e emozioni del momento in cui sono state scattate. Questo approccio suggerisce che ogni fotografia è intrinsecamente legata all’intento e alla soggettività del fotografo. Le fotografie possono essere interpretate in modi diversi, a seconda dell’intenzione di chi fotografa e della percezione dello spettatore. Per non dire nulla poi delle intenzioni di chi questa foto ha commissionato.

Le immagini possono risultare da una collaborazione tra l’apparecchio fotografico e l’abilità del fotografo, creando un dialogo complesso tra tecnologia e creatività. Si distinguono diversi tipi di fotografie, evidenziando come le immagini amatoriali, che spesso non portano nuove informazioni, possano comunque rivelare il flusso di coscienza di chi le scatta. In questo caso, questa foto, ha messo in moto il mio flusso di coscienza a distanza di un secolo. Fotografare può essere visto come un modo per esplorare l’inconscio.

Quando un fotografo osserva un soggetto, dichiara una separazione da esso, creando un’interpretazione che può rivelare aspetti nascosti della propria psiche. Questo processo di distacco e osservazione è simile al flusso di coscienza, dove i pensieri fluiscono liberamente, permettendo una riflessione profonda e personale. La fotografia può essere considerata un’espressione di questo flusso, in cui il fotografo cattura non solo un’immagine, ma anche un momento di introspezione e di pensiero personale.

Tutti sono in posa. In giacca e cravatta. Il Patriarca, nonno Michele, ha stirato per l’occasione i suoi baffi, la Signora, nonna Caterina, (che non ho mai conosciuto) indossa il suo abito da società. Tutti hanno gli occhi fissi sul fotografo. La borsetta in mano alla donna serve per intrattenere l’ultima nata. Porta il nome di Rosalia. Un nome rivelatore. Cinque maschi, una bambina. Il Patriarca, con sua moglie e i suoi figli, mandano un messaggio alla primogenita Anna che aveva deciso di lasciare la famiglia, emigrando verso il “mondo nuovo”. Lì avrebbe creato una nuova e diversa genarazione: la Gallo-Parziale.

Zia Nannina, l’ “americana”, avrebbe concorso a far nascere oltremare una diversa generazione, in un nuovo continente. La guerra non era ancora scoppiata. Lei, ricamatrice provetta, nel dicembre del 1923, si imbarcò a Napoli su una nave diretta in America. Ci impiegò 17 giorni per arrivarci. Con lei sarebbe dovuto partire anche mio Padre. Per motivi che ignoro, lui preferì non prendere quella strada. Nella foto di qualche anno dopo, il giovane Antonio aveva fatto la sua scelta e lanciava un messaggio a sua sorella al di là dell’oceano. La strada che non prese. Da lì a qualche anno, sarebbe cambiato il mondo. Sarebbe scoppiata la seconda guerra mondiale.

Non ricordo molto degli anni del dopoguerra quando nel marzo del 1944 il Vesuvio improvvisamente decise di svegliarsi, nonostante una guerra in corso. Dalle 16.30 del 18 marzo 1944 era iniziata un’eruzione, l’ultima a oggi, con attività eruttive effusive che si manifestarono con violenza fino al 29 marzo. Il giorno d’inizio ci fu la sollevazione di un gigantesco pennacchio di fumi e ceneri in atmosfera, la colonna eruttiva si misurò tra i 16 e i 22 km in altezza e fu visibile da centinaia di Km di distanza.

Il giorno dopo, l’attività s’intensificò anche con magma effusivo tanto che colate laviche, scorie e lapilli in ricaduta investirono anche l’agro Nocerino-Sarnese. Nei giorni seguenti le ceneri mosse dal vento si spinsero verso est e nord-est arrivando a coprire Cava, Vietri e Salerno con cadute di polveri portate anche a centinaia di chilometri di distanza dal cratere. Abitavamo nella stessa strada di Via De Liguori, dopo il bombardamento di Napoli e la fuga da Pozzuoli.

Mio Padre lavorava all’Ansaldo, collaudava cannoni. Eravamo scappati lasciando la casa di fronte alla stazione della Cumana a Pozzuoli, senza mai più farci ritorno. Non ricordo molto della fuga sotto le bombe, attraversando il tunnel di Fuorigrotta, mia madre con la sua affezionata gallina nella borsa. Ci rifugiammo prima a Tramonti, il paese di mia Mamma, per poi stabilirci a Sarno, in via De Liguori, dove abitammo per poco tempo, grazie alla cordialità della famiglia De Colibus. Poi ci trasferimmo in Via Fabricatore 14 dove restammo per molto tempo.

Ma il Vesuvio s’era svegliato, il tetto della casa del nonno in Via De Liguori era ricoperto di ceneri. Bisognava spalare se non si voleva far crollare tutto. Mio padre con i fratelli lo fece e si beccò una potente sciatalgia. Una storia che sarebbe spesso riapparsa nei racconti che lui e mia madre si facevano. I miei ricordi sono molto vaghi, la nebbia del tempo offusca ogni cosa. Il flusso della memoria si autoalimenta e inventa se stesso.

La guerra era finita, ma stava per iniziare una guerra diversa, che aveva al centro il “messaggio” che avrebbe portato al cambiamento generazionale. Nonno Michele, il Patriarca, aveva ripreso la sua attività di stampatore, i figli erano tutti pronti a raccogliere il “messaggio”. Il “mezzo” era pronto, bastava poco. Dei cinque fratelli, Mario decise di non condividere quel “messaggio”. Studiò e divenne un maestro. Gli altri quattro continuarono quella che allora veniva chiamata “Arte Tipografica”. Ma il “medium” stava per cambiare non solo la “pelle” ma anche i contenuti e i comportamenti.

La trasformazione dall’arte tipografica tradizionale all’arte digitale rappresenta un cambiamento significativo nel modo in cui il messaggio viene comunicato. L’arte tipografica, una disciplina storicamente radicata nella stampa manuale, stava per subire un’evoluzione radicale con l’avvento della tecnologia digitale. La tipografia, etimologicamente derivante dal greco, combina i concetti di “impronta” e “scrivere”. Non a caso, io imparai a leggere e scrivere in quell’ambiente.

L’Arte Tipografica con Gutenberg ha rivoluzionato la comunicazione umana, permettendo la diffusione e la conservazione della conoscenza attraverso secoli di innovazioni. Ma in una manciata di pochi anni tutto cambiò in maniera velocissima. Con l’introduzione della stampa digitale, i processi tipografici sono diventati più accessibili e versatili. Strumenti di desktop publishing e software di design grafico hanno democratizzato la creazione di contenuti, consentendo anche a chi non è specialista di partecipare attivamente alla progettazione tipografica.

Ma, oltre al fattore tecnologico, quello che fece scomparire il brand sarnese denominato “Arti Grafiche M. Gallo & Figli” e che diede alla Città una degna “Storia di Sarno” in tre volumi, per merito di un suo illustre cittadino il Prof. Don Silvio Ruocco, fu anche il fattore umano. Dei tre fratelli che avevano deciso di continuare l’attività tipografica, solo Antonio, mio Padre, rimase in sede. Francesco e Felice, avvertirono l’arrivo dei grandi cambiamenti e si trasferirono a Napoli diventando operatori editoriali in proprio.

Conflitti familiari di altra natura determinarono la definitiva scomparsa di quella nobile Arte Grafica che mi aveva visto correggere e portare le bozze del libro a casa di quella burbera ed imponente figura umana ed intellettuale che fu don Silvio Ruocco. Per questa ragione non mi stanco mai di ripetere con Marshal McLuhan: “il mezzo è il messaggio”. Il filosofo canadese Marshall McLuhan lanciò la sua esperienza proprio in quegli anni ’60 e rappresenta un concetto fondamentale nella teoria della comunicazione.

Secondo McLuhan, il mezzo di comunicazione utilizzato per trasmettere un messaggio è altrettanto importante, se non più del messaggio stesso. McLuhan sosteneva che ogni mezzo di comunicazione, come la stampa, la radio, la televisione o Internet, (che era ancora da venire), non è semplicemente un canale neutro per trasmettere informazioni, ma ha un impatto significativo sulla società e sulla cultura.

Ogni mezzo ha caratteristiche uniche che influenzano il modo in cui il messaggio viene percepito e interpretato. Un messaggio trasmesso attraverso la radio avrà un impatto diverso rispetto allo stesso messaggio trasmesso attraverso un video su YouTube. Questo perché la radio si basa solo sull’audio, mentre YouTube utilizza immagini e suoni, offrendo un’esperienza più immersiva. I mezzi di comunicazione non sono mai neutrali. Ogni mezzo ha una propria “grammatica” e influenza il modo in cui le persone pensano e interagiscono.

Il contenuto è meno importante del mezzo. Sebbene il contenuto sia importante, il mezzo utilizzato per trasmettere il messaggio ha un impatto maggiore sulla società. I mezzi di comunicazione plasmano la cultura. I nuovi mezzi di comunicazione introducono nuovi modi di pensare e di interagire, influenzando la cultura e la società. Ogni mezzo ha vantaggi e svantaggi, ha punti di forza e di debolezza, che devono essere considerati quando si sceglie il canale più adatto per comunicare.

Nell’era digitale, il concetto di “il mezzo è il messaggio” è ancora più rilevante. Internet e i social media hanno rivoluzionato il modo in cui le persone comunicano e accedono alle informazioni. Questi nuovi mezzi di comunicazione hanno un impatto profondo sulla società, influenzando la politica, l’economia e la cultura. L’espressione sottolinea l’importanza del canale di comunicazione utilizzato per trasmettere un messaggio. La foto di questa generazione lo dimostra. Qoelet lo sapeva, McLuhan lo confermò.

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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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