Un genio da manicomio: Dino Campana

Antonio Gallo
3 min readAug 19, 2022

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Un genio da manicomio «La mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso». Che genio e follia spesso vadano insieme non è cosa nuova, sicuramente coabitarono nel poeta Dino Campana.

«Il matto», lo chiamavano a Marradi, il suo paese natìo, da quando aveva 15 anni e gli furono diagnosticati i primi disturbi nervosi. La sua pazzia inizialmente la mostrò camminando: andava, andava, spariva, tornava, viaggiava, fuggiva.

Spesso di ritorno o sulla via del ritorno veniva ricoverato in un ospedale psichiatrico, perché questo suo vagabondare pareva un segno inequivocabile di pazzia. Si disse, ma nessuno lo sa con certezza, che viaggiò a lungo anche in Argentina. O forse non ci andò mai.

Pare trovasse pace dal suo inquieto errare solo in un modo: mangiando castagne, di sera, insieme ai compaesani. Intanto scriveva, geniale ma incompreso, e studiava. Tanto incompreso che il manoscritto di prose e versi, Il più lungo giorno, che quando aveva 28 anni portò a Firenze ad Ardengo Soffici e a Giovanni Papini, direttori della rivista Lacerba, andò perso.

Peccato che si trattasse dell’unica copia. Dino si mise a riscrivere tutto, con un lavoro davvero «matto e disperatissimo», con aggiunte e modifiche rispetto alla prima versione. Per inciso, il mano manoscritto originale fu ritrovato in una casa di Soffici cinquant’anni dopo.

Alla fine, a sue spese, tra scoppi d’ira, deliri e un umore sempre meno stabile, riuscì a pubblicare la sua opera, che ottenne finalmente l’attenzione della critica, e non solo. Fu proprio dopo quella lettura che Sibilla Aleramo gli scrisse la prima ardente lettera, per poi raggiungerlo a Marradi.

Lei, la quarantenne scrittrice dei salotti romani e milanesi, femminista e politicamente impegnata, prese la corriera per incontrare «il matto» del paese. I due anni seguenti furono un’esplosione di passione, gelosia e follia, fino alla violenza e al ricovero di Dino Campana nel manicomio di Castel Pulci, vicino a Firenze.

Lì, tra deliri, voci che gli parlavano e un’ampia sintomatologia psichiatrica, trascorse quattordici anni. Nell’ultimo anno i sintomi si diradarono fino quasi a scomparire, tanto da far ipotizzare una dimissione imminente. Ma la voglia di fuga fu più forte e una ferita, provocata probabilmente da un filo spinato, causò la setticemia che lo portò alla morte, prima di poter tornare alla vita.

Sarà stato anche matto, ma la poesia visionaria dei suoi Canti Orfici, in cui mescola suggestioni dei simbolisti francesi, influenzerà profondamente i poeti del Novecento, in particolare gli ermetici.

Il critico e scrittore Sebastiano Vassalli, ha scritto, in una sua presentazione ad una edizione di queste poesie, che la vita di questo poeta è tutta riassunta nel verso di Walt Whitman che lui stesso ha posto come epigrafe ai “Canti Orfici”: “They were all torn and cover’d with the boy’s blood” (“Essi erano tutti stracciati e coperti con il sangue del fanciullo”) … “Chi sono “they”, “essi”? Li elenco in ordine di importanza.

“Essi” sono: i genitori, i compaesani, i letterati dell’epoca, gli psichiatri. Si capisce, allora, che qui è in gioco tutto l’universo esistenziale di un uomo che vuole essere “poeta”, ma tutti lo prendono per pazzo. Non è possibile in questa sede esaminare i fatti riguardanti questi eventi. Porterei il lettore fuori strada, allontanandolo da quello che è il tema principale di questo post che riguarda il ricordo della sua nascita il 20 agosto del 1885.

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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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