“Tempo perduto” e “Tempo ritrovato” nella Valle dei Sarrasti
Nulla è più misterioso e sfuggente dell’idea di tempo. Ci appare come la forza più grande dell’universo, ci porta inesorabilmente dalla culla alla tomba.
Ma, precisamente, di cosa si tratta? Per Sant’Agostino il problema era chiaro: «Se nessuno me lo chiede, so cos’è il tempo, ma se mi si chiede di spiegarlo, non so cosa dire». Tutti lo associano al cambiamento, alla crescita e alla trasformazione.
Ma c’è forse dell’altro? Le domande non mancano. Come si muove il tempo? In una sola direzione, dando vita a un presente in costante cambiamento o in più direzioni? Il passato esiste ancora? E se si, dov’è finito? Il futuro è già determinato, ci aspetta? Anche se non lo conosciamo?
Intendo qui parlare di due libri pubblicati per caso insieme, per cercare di rispondere a queste domande. La questione mi sembra che rimanga comunque aperta. Quella che turbava Agostino: cos’è il tempo?
Può sembrare strano, ma sia la fisica che la filosofia non sono riuscite a dare una risposta a questa domanda. Eppure, sia il tempo che lo spazio li ritroviamo in questi due libri. Li troviamo entrambi in forma di scrittura. Ed è proprio questa la ragione principale per la quale non posso non occuparmene.
Giuseppe di Lampedusa, autore dell’indimenticabile “Il Gattopardo” ebbe a scrivere in una sua memoria che, ad una certa età, dovrebbe essere obbligatorio scrivere le proprie memorie.
Magari, aggiungo io, tenendo un diario, stampando un giornale, oppure aprendo un blog, come faccio io ormai da oltre un ventennio e lo fanno tanti con l’avvento del pensiero digitale.
Ci sono milioni di persone che ritengono sia una attività opportuna e gratificante, come è giusto che sia, scrivere le proprie memorie in forma autobiografica, oppure in forma sociale, dando alla stampa tradizionale cartacea i propri pensieri, le comuni esperienze ed i condivisi eventi sociali.
Io ritengo, addirittura, che la scrittura abbia un valore terapeutico. Per me ebbe anche un valore pedagogico: imparai a leggere e scrivere componendo e scomponendo, nella tipografia di famiglia, i caratteri mobili di piombo e di legno. Soltando scrivendo, riesco a capire quello che penso.
La città di Sarno sembra avere una lunga ed anche interessante tradizione di scrittura legata a questo tipo di comunicazione. Ne sono stato testimone. Ho fatto a tal fine anche il correttore di bozze nella tipografia paterna.
Sono sempre tanti gli scrittori sarnesi che si dedicano alla memoria storica locale e personale, muovendosi nella microstoria nel tentativo di ricostruire e recuperare dalla polvere del tempo, come atto d’amore, memorie personali ed eventi sociali in maniera da restituirli alla dignità della Storia.
Quella con la maiuscola, la Memoria della propria identità, oppure della “gens” vissuta in questa antica Valle degli antichi Sarrasti. Perchè questo è, appunto, il senso della microstoria che si collega magicamente anche all’autobiografia.
Quest’ultima attività, quando si ritrova e si identifica nella scrittura, diventa significativa. Non una mera attività che interpreta testi ed eventi, ma piuttosto un voler andare alla ricerca della verità, sempre relativa e personale, nel tentativo di farla diventare e sociale, mettendo in evidenza conflitti e convergenze.
Questa piuttosto lunga premessa mi serve per contestualizzare queste due ultime pubblicazioni che non potevo non acquistare, leggere con attenzione e inserire nella mia biblioteca digitale su GoodReads. Entrambi i libri manifestano il grande fermento culturale, intellettuale e sociale che caratterizza da sempre questa valle sin dai tempi antichi.
Livio Pastore e Norma D’Alessio non sono per me persone ed autori nuovi. Sono presenze culturali ed amicali che conosco da lungo tempo, con modalità e sentimenti diversi. Il primo ha fatto delle sue origini legate a quelle che un tempo venivano chiamate “Arti Grafiche” la sua attività comunicativa sul territorio in maniera tanto ecclettica quanto innovativa. Dire che ha una lunga esperienza nel campo tipografico è dir poco. Forse sarebbe meglio dire che Livio ha fatto davvero “la gavetta” nel campo della comunicazione in tutti i suoi vari e numerosi aspetti.
Li ho conosciuti e ricordo tanti giovani apprendisti che si sono succeduti nel corso di decenni tra Sarno, Salerno, Napoli e in tante tipografie campane, allievi della “Arti Grafiche M. Gallo & Figli”, di Sarno, nati, cresciuti e diventati artigiani, tecnici, tipografi, stampatori e imprenditori. Livio è stato uno di questi, ha saputo non solo impegnarsi nel lavoro tipografico ma anche rinnovarsi, adattarsi e trasformarsi nel lungo e complesso percorso che la comunicazione ha fatto in questi due-tre decenni.
Una delle sue “creature”, anzi la sua “creatura originaria” chiamata “Eventi”, ancora in vita come giornale distribuito gratuitamente, si è trasformata in una complessa e produttiva attività editoriale affermatasi con grande fiuto commerciale. Destreggiandosi abilmente tra il cartaceo e il digitale, Livio, da semplice tipografo è diventato grafico, giornalista, fondatore e direttore editoriale di se stesso.
Livio sa bene che i suoi lettori oltre a voler pensare, scrivere, leggere e criticare, vogliono anche partecipare, vendere, comprare, conoscere e confrontarsi, sia con il presente che con il passato, fiutando quello che possa accadere per il futuro. In nome di una memoria condivisa, ma sopratutto senza perdere di vista il mercato. Questo ennesimo libro ne è una prova viva.
Il secondo libro di cui mi occupo e che con quello di Livio Pastore fa parte di una memoria comune condivisa dal punto di vista umano e sociale, è quello della dottoressa Norma D’Alessio. Una di per sè già raffinata e sensibile persona, quando Norma si presenta come scrittrice o poetessa, il legame personale che unisce la mia famiglia a lei e a suo marito Cosimo, diventa quasi metafisico.
Una decina di anni fa ebbi modo di scrivere che la sua poesia richiama echi di Umberto Saba e Emily Dickinson. La sua prosa, invece, in questo nuovo libro, conferma una ben definita terragna concretezza già dimostrata in precedenti esperienze narrative.
Questa volta ella manifesta il suo “primo sole” apertamente e senza remore. La “Dickinson sarnese” si scopre autobiografica. Alla maniera di Marcel Proust opera una continua, costante, sofferta ricerca di un colloquio prima con se stessa e poi con gli altri.
Nella sua narrazione, guarda caso, mi sono “ritrovato”, come in un percorso parallelo che attraversa quel suo stesso spazio fisico e temporale che mi piace chiamare la “spaccanapoli sarnese”. Per chi conosce la città di Sarno, va da piazza Croce, percorre Via Laudisio, si snoda lungo via Fabricatore, attraversa piazza Municipio e si dilunga giù per via De Liguori.
Uno spazio che diventa un percorso di vita condivisa anche da me in quel tempo, a cavallo degli anni cinquanta. Quando Norma parla della “botteguccia angusta” di suo padre fotografo in via Fabricatore, ritrovo quel mio tempo che credevo perduto.
C’ero anche io, ma non lo sapevamo. Leggendo il suo libro, l’ho ritrovato, oggi, a distanza di sei-sette decenni, in veste di dinosauro. Ebbi modo di scriverne anni fa sul mio blog.
Ricordo quando in quella bottega al fotografo Tambone, subentrò suo padre D’Alessio. Il fotografo Tambone Luigi lo si può ritrovare nelle immagini qui al link che riprendono i miei giorni trascorsi nelle “cantinelle” della Scuola Media all’Istituto De Amicis, II e III B anno del Signore 1952. A conti fatti, avevo 13 anni.
Dal balcone della casa dove abitavamo in via Fabricatore 14, proprio in testa alla scomparsa oreficeria di don Carlino, (che lei non cita) di fianco alla pasticceria Assalonne (che lei cita), proprio di fronte alla terrazza dell’abitazione di Giona Squitieri, l’armiere (che lei cita), dove c’era la nostra stanza da letto, potevo guardare le sue zie Gloria e Rita Saviano che abitavano di fronte, in alto. Entravano nella loro abitazione da un portone su per via M. Squitieri. Io corteggiavo, senza che lei l’abbia mai saputo, Rita.
Ma questo sarebbe il “mio tempo ritrovato”. Ma devo parlare di quello di Norma D’Alessio, che allora non conoscevo affatto. Qui inizia il suo percorso autobiografico. Il genere letterario che sembrerebbe essere uno dei più facili da seguire. Cosa può essere, infatti, più facile di parlare o scrivere della propria vita? Sembrerebbe. Ma non è così.
Basta dare uno sguardo alla storia letteraria per convincersi del contrario. Abbondano le storie, i racconti, i romanzi, ma rare e preziose sono le autobiografie. Ortega y Gasset ha scritto una frase che mi piace ripetere:“Originale o plagiario l’uomo è il romanziere di se stesso”. In questa semplice considerazione è sintetizzata tutta la difficoltà dell’autobiografia.
Fino a che punto un uomo, o una donna, che decidono di parlare di se stessi, sanno e possono essere “originali” o “plagiari”? Cosa significa, poi, essere “originali” e cosa si intende essere “plagiari”? Le vite degli uomini sono tante, infinite, dagli inizi del mondo, ed infinite continueranno ad essere fin quando durerà l’umanità.
Come fa, allora, una vita ad essere “originale”, se l’uomo vive tutta la sua vita in comune con quella di tanti altri? Come può questo uomo o questa donna evitare di essere un plagio di un altro uomo o di un’altra donna? E fino a che punto questa vita potrà essere davvero unica? Questi sono gli interrogativi di base da porsi, allora, quando si vuole scrivere un’autobiografia che sia davvero originale. Ed ecco perchè le autobiografie straordinarie, sono poche.
Questa di Norma D’alessio ha una caratteristica tutta sua, può essere considerata “originale” se la si legge dal suo punto di vista, “plagiaria” dal punto di vista di chi ha la fortuna di leggere il suo libro e riuscire a rivivere con lei quello che scrive. Insomma, è come ritrovare un tempo pensato perduto. Posso dire che questa è stata la mia esperienza di lettura del libro. Grazie a questa lettura ho ritrovato un tempo che pensavo fosse perduto. Ognuno ha il suo primo sole …