Stendhal: il suo nome è una sindrome
Il sole del Mediterraneo fa brutti scherzi. Ricordo un viaggio a Ravello di molti anni fa con un amico professore di una università inglese, appassionato della storia, della cultura e dell’arte del nostro Paese. Il suo nome era Don. In un infuocato mese di agosto quando lo portai in quel mio “place of mind” che è Ravello. Le cicale impazzivano frinendo al solleone lungo il sentiero che porta a Villa Cimbrone. Quando entrammo nel viale di ingresso avvertii sul volto del mio amico, grande esperto del teatro di Shakespeare, una malcelata agitazione.
Il giorno prima lo avevo portato a visitare i templi di Paestum ed era quasi andato in deliquio ipnotico tra quelle colonne millenarie. Al museo aveva a lungo indugiato davanti al dipinto della tomba del tuffatore. In silenzio aveva preso appunti seduto su una panchina mentre io avevo preferito attenderlo all’uscita mangiando un gelato per combattere l’arsura della giornata.
Ora, a Villa Cimbrone , mi accingevo ad accompagnarlo verso quella terrazza chiamata “terrazza dell’infinito”. Tra una esplosione di fiori e di colori percorremmo il lungo viale in silenzio. Eravamo entrambi stanchi ed affaticati. Avevamo già visitato Villa Rufolo al mattino e avevamo discettato a lungo di Wagner, David H. Lawrence, Gore Vidal e quant’altro potesse riguardare ricordi, glorie e illustri visitatori e relative memorie di Ravello. Sbucammo sulla terrazza.
Il sole picchiava implacabile riflettendosi sul mare all’orizzonte. Ci abbagliò costringendoci a difenderci gli occhi con un braccio piegato, nonostante gli occhiali scuri che indossavamo. Non tirava un alito di vento ed io, che quello spettacolo conoscevo bene per esserne stato spettatore molte volte, subito mi misi a sedere di fronte alle statue che ornano il belvedere.
Mi allontanai lasciandolo solo a godere tutta la bellezza dello spettacolo. Rimase immobile su quella specie di piccolo balcone, appoggiò le mani alla ringhiera, per qualche minuto. Eravamo soli in quel momento in quello spazio di fronte all’infinito. All’improvviso, Don alzò una gamba e fece come per scavalcare la ringhiera.
Mi alzai rapidamente dal posto dove ero seduto e lo afferrai alle spalle facendolo cadere a terra verso l’interno del balcone. Gli urlai in inglese: “What the hell are you doing? Are you mad?”. Sopravvenne un gruppo di visitatori. Ci rialzammo e lo misi sedere di fronte dove stavo seduto poco prima. Era come paonazzo in volto.
La camicia aperta davanti aveva perso alcuni bottoni, gli shorts bianchi che indossava erano sporchi sul fianco, un graffio alla gamba sinistra. Gli chiesi cosa gli avesse preso. Perchè aveva tentato di scavalcare la ringhiera del piccolo balcone.
Mi rispose con una domanda: “Do you know the Stendhal syndrome”? Scossi la testa e dissi: “Che cavolo è la Sindrome di Stendhal?”. Mi spiegò che tutto gli sembrava così bello. Troppo, tanto da voler morire, da uccidersi. Incredibile! Rimasi secco. Lo presi con cautela per il braccio e lo indirizzai verso l’uscita. Cercai di farlo ritornare in sè. Lo portai al bar del ristorante di sotto e gli feci bere un espresso.
Ancora non potevo credere a quello che era successo. “Questo è pazzo”, pensai. Un episodio di ordinaria sindrome da viaggio mediterraneo, vissuta in prima persona, che non dimenticherò mai. Lo rivivo ogni qualvolta mi affaccio alla Terrazza dell’Infinito di Villa Cimbrone. Un originale, un bizzarro, un eccentrico, oppure semplicemente un “viaggiatore” che voleva “volteggiare” da quella terrazza in nome della bellezza del “genius loci” che caratterizza chi viaggia in cerca di “casa”?
Stendhal Scrittore (1783–1842) Il suo nome è una sindrome Il suo nome è quasi più noto per un’inspiegabile perdita di coscienza che per i suoi innumerevoli romanzi: uscendo dalla chiesa di Santa Croce a Firenze, è talmente assorbito dalle meravigliose immagini contemplate all’interno che, angosciato e in preda al panico, sviene per la strada spaventando i passanti increduli.
Grande scrittore e appassionato di arte, Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyle, è ufficiale napoleonico e diplomatico del Regno di Francia sotto Luigi Filippo. Perde la madre a 7 anni e il padre, violento e anaffettivo, non lo aiuta certo a crescere. Lui diventa timido e orgoglioso, e comincia a cercare nei viaggi le risposte ai sogni nascosti. Va spesso dal sarto, cercando di camuffare la sua mancata avvenenza.
Inizia la sua carriera di ufficiale napoleonico per diventare diplomatico, ruolo che lo aiuta a risolvere le sue insicurezze. Si innamora spesso, talvolta corrisposto, scrive tantissimo e viaggia, soprattutto in Italia. Sceglie Milano: il suo amore per la città viene ricambiato con l’appellativo di «milanese» accanto al nome inciso sulla sua tomba nel cimitero di Montmartre.
Usa tutte le avventure che gli capitano come materia per i suoi romanzi, che si rivelano dei capolavori, da Il Rosso e il Nero (pubblicato per la prima volta il 13 novembre 1830), a La Certosa di Parma, fino a Roma, Napoli e Firenze. Ha una grande sensibilità romantica, un acuto spirito critico e una scrittura personalissima: analizza comportamenti sociali, parla con conoscenza di arte e musica e approva la giusta ricerca del piacere.
Muore per strada a Parigi nella notte del 22 marzo 1842: ha un infarto, sviene e questa volta non si risveglia. Come aveva sperato. Ha 59 anni. Pochi, ma significativi. Non sufficientemente considerato dai contemporanei, è stato in seguito molto amato dai lettori.
Il suo caso è stato analizzato per la prima volta in maniera scientifica dalla psichiatra fiorentina Graziella Magherini negli anni Settanta del Novecento. Si tratta di un disagio psicosomatico che si manifesta osservando opere d’arte appassionanti o ascoltando musica di forte impatto emotivo. I sintomi sono vari: disturbi percettivi, allucinazioni uditive, umore orientato alla depressione, manifestazioni estatiche, crisi d’ansia e di panico. E’ probabile che questo milanese d’adozione, sarebbe orgoglioso di essere associato a una «sindrome» speciale e totalizzante, scaturita da una grande bellezza. (ALMAMATTO)