“Sono Yorick. Mi ricordo di te, William!”

Antonio Gallo
5 min readApr 22, 2024

Il 23 aprile 1564 nasce William Shakespeare. Ah, Shakespeare! Un nome che risuona come un’arpa angelica nelle mie orecchie, un nome che evoca immagini di mondi fantastici e di personaggi indimenticabili. Come Yorick, il buffone di Amleto, ho avuto il privilegio di conoscere da vicino questo genio della letteratura inglese, di assistere alla sua fervida immaginazione e alla sua maestria nel plasmare le parole.

Ricordo ancora il giorno della sua nascita, il 23 aprile 1564, come se fosse ieri. Un giorno di festa e di gioia, in cui una nuova stella si accese nel cielo della letteratura. Shakespeare nacque nella pittoresca cittadina di Stratford-upon-Avon, immersa nella bellezza della campagna inglese. Fin da piccolo, mostrò un talento straordinario per la scrittura e la recitazione, e ben presto si affermò come uno dei più grandi drammaturghi del suo tempo.

Le sue opere, come Amleto, Romeo e Giulietta, Macbeth e Sogno di una notte di mezza estate, sono ancora oggi rappresentate in tutto il mondo, amate e apprezzate da milioni di persone. I suoi personaggi, così complessi e realistici, ci parlano di amore, odio, ambizione, tradimento e di tutte le sfaccettature dell’animo umano.

Shakespeare era un uomo di grande ingegno e umorismo, ma anche di profonda sensibilità. Sapeva cogliere le debolezze e le contraddizioni dell’uomo, e le rappresentava con maestria nelle sue opere. Era un maestro del linguaggio, capace di utilizzare le parole per creare mondi immaginari e per esprimere le emozioni più profonde.

Come Yorick, ho avuto l’onore di recitare alcune delle sue battute immortali, e ogni volta mi sono emozionato come se fosse la prima volta. Le sue parole hanno il potere di trasportarci in altri mondi, di farci vivere avventure straordinarie e di farci riflettere sulla nostra stessa esistenza.

Shakespeare è stato un vero genio, un dono inestimabile per l’umanità. La sua eredità è immensa e le sue opere continueranno a ispirare e ad affascinare le generazioni future. Yorick, il buffone di Amleto.

Amleto, principe di Danimarca, sta rientrando a Elsinore al fianco del fedele Orazio, dopo l’avventurosa liberazione dai pirati che l’avevano catturato e la morte, per mano degli inglesi, dei suoi due sicari e amici Rosencranz e Guildestern.

Si apre così la prima scena dell’atto quinto, l’ultimo, della grandiosa tragedia di William Shakespeare, Amleto; il protagonista si ferma in un cimitero — di lì a poco arriverà il corteo funebre della bella Ofelia — e conversa con un vivace becchino: questo intervallo, apparentemente comico, è in realtà un pretesto dell’autore per offrire al suo pubblico una elegante riflessione sulla caducità delle cose umane e sulla brevità della vita. Un piccolo assaggio di elisabettiano e magistrale horror vacui. Il becchino prende allora da una fossa un teschio: è quello di Yorick, il buffone del re.

Non c’è personaggio forse più bello e riuscito in questo dramma; l’assente più presente dell’intera Opera shakesperiana: l’arguto Yorick. Ma chi è questo Yorick rimasto sotto terra per ventitré anni? Il buffone di corte, naturalmente, quali molti ve ne furono nelle corti del Rinascimento: dedito al divertimento e al buonumore del sovrano e del suo seguito; un simpatico giullare che ha portato il piccolo Amleto a cavalcioni sulle sue spalle.

Ma Yorick è veramente soltanto il giullare di corte? Il buffone del re, come tanti prima e dopo di lui? Non c’è tragicità nella breve descrizione della vita del giullare che l’autore delinea in pochissime righe, egli non è, per intenderci, simile al disperato e condannato Rigoletto; Yorick è, o meglio era, un uomo. Che bella questa definizione. C’è tutta l’anima di un personaggio amato. Soltanto la grandezza della penna di William Shakespeare poteva regalarci un simile ritratto.

Yorick è quindi allora un appiglio per una meditazione sulla vanità del mondo, come le ultime battute di Amleto lascerebbero immaginare? Forse no. Yorick, viene fatto di pensare, è molto di più. Vi è forse nella rievocazione del defunto buffone (ma allora il giullare era molto più di quello che noi oggi saremmo portati a credere) il ricordo di un uomo scomparso soltanto sette anni prima: Christopher Marlowe. Il “gentile Marlowe”, per il quale all’epoca del suo debutto, l’assai meno famoso William Shakespeare nutriva, è noto, un debito stilistico e tematico enorme. Tra i due non correva comunque troppa simpatia e lo sfortunato Marlowe morirà in una taverna nel 1593, a causa di una ferita all’occhio riportata in una rissa con un soldato, in mezzo ad ubriachi e meretrici.

Questa fine ingloriosa non toglie che Marlowe fosse il più noto e capace degli “University wits”; vale a dire di quegli intellettuali usciti dalle università imbevuti di classicismo, coinvolti nella vita libertina della Londra cinquecentesca e accomunati dal gusto della parola e dal culto per l’acutezza dei concetti e per il rigore della forma poetica. I personaggi delle sue tragedie si stagliano isolati dal loro contesto e ci vengono descritti — in un linguaggio talora iperbolico, sempre ricco e pieno di vigore — pervasi da passioni estreme: la brama inquieta di dominio, di infinito, di bellezza, di vendetta.

E’ quindi Christopher Marlowe il nostro Yorick? Forse no. Forse si tratta di un omaggio che Shakespeare volle tributare postumo — si noti la precisione di quei ventitré anni dalla morte — ad un attore, magari un geniale capocomico, che suscitò nel giovane William l’amore per il teatro, per quella. Forse un attore che con lo stesso Shakespeare aveva in passato lavorato e che era stato interprete di alcuni ruoli appositamente esemplati dall’autore su di lui.

Ma c’è di più. Un’ipotesi ultima e affascinante. William Shakespeare ha magari voluto ritrarre in Yorick se stesso, oppure qualcosa di sé stesso. Sappiamo poco della vita privata del grande drammaturgo inglese; tuttavia credo che nessuno potrebbe dubitare che egli fu davvero. Yorick è allora il doppio di Shakespeare? La sua anima più acuta e brillante?

Non lo sapremo mai e in fondo conta poco saperlo. L’importante è che in Yorick ognuno di noi può vedere l’epitome dell’acutezza di ingegno. Dopo tanti omaggi, nei secoli precedenti, a sovrani, potenti della terra, prelati, guerrieri e bellissime dame, Shakespeare ci ha regalato invece — in quelle poche, fulminanti battute pronunciate da Amleto in un cimitero — il bellissimo, affettuoso e ironico epitaffio del vero.

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Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.