“Silenziosi” & “Centenniali”
Questa è la torta con la quale Chiara ha festeggiato i suoi venti anni. Una occasione per mettere a confronto due ventenni, il mio 1939–1959 e il suo 2004–2024 con le relative generazioni. Quelli della “generazione silenziosa” per i nati 1928–45, e quella della “centenniali/generazione Z” nati 1997–2012. Un confronto generazionale, un viaggio nel tempo per comprendere le profonde trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche che hanno modellato le esperienze di due generazioni.
Rientro nella categoria della “generazione silenziosa” (1928–1945). Il mio primo ventennio va dal 1939 al 1959. I ricordi creano un contesto storico provinciale molto sfumato, da me vissuto in un paese di provincia meridionale che seppe poco della “Grande depressione”, ma visse in maniera drammatica il dopoguerra. L’infanzia e l’adolescenza di questa generazione alla quale appartengo sono state segnate da eventi drammatici che hanno plasmato un profondo senso di responsabilità, sacrificio e frugalità.
Una società tradizionale con forti valori come famiglia, patria e lavoro che erano fondamentali. Le aspettative di genere erano ben definite e le opportunità erano limitate. Maturammo precocemente. Mi diplomai a diciotto anni, dopo traversie e incomprensioni scolastiche locali, in un Liceo locale che si ostinava a non insegnare a vivere il futuro. In molti giovani coetanei ventenni ci ritrovammo a dover affrontare sfide ben oltre la nostra età.
La mia via di fuga fu prima linguistica e culturale, poi reale. Studente emigrante lavoratore (conservo ancora il passaporto del tempo con la dizione di “lavoratore”) mi ritrovai a studiare lavorando davvero prima in Germania e poi in Inghilterra. L’obiettivo era la costruzione del futuro che lentamente, ma con decisione, da una realtà locale, falsamente classica, era diventata paradossalmente conservatrice e reazionaria.
Se questo fu il mio primo ventennio, quello di mia nipote Chiara, bolognese di nascita e di vita, “zoomer” (1997–2012) nel ventennio (2004–2024), vive in un contesto storico molto diverso, una vera e propria era globale. Cresciuti, immersi nella tecnologia, gli Zoomers sono nativi digitali. Internet, smartphone e social media hanno plasmato profondamente il loro modo di comunicare, relazionarsi e percepire il mondo. Un mondo sempre connesso, con una maggiore consapevolezza delle diversità culturali e sociali.
Vent’anni. Gli Zoomers sono abituati a un flusso continuo di informazioni e a un ritmo di vita frenetico. Vogliono essere indipendenti. Cercano esperienze autentiche e personalizzate, sfidando gli stereotipi e le convenzioni. Sono creativi, amano esprimere se stessi e sono abili nel creare contenuti digitali. Sono inclusivi, consapevoli delle questioni sociali e si battono per l’uguaglianza e la diversità. Sono intraprendenti, alla ricerca di opportunità e flessibilità, spesso intraprendendo progetti personali.
Il compleanno di Chiara cade quando è iniziato l’autunno dell’anno 2024. Con i quattro ventenni che mi ritrovo ad aver vissuto, questo quinto lo rivivo insieme a lei. E’ come se fossi io ogni momento a costruire un mio nuovo futuro. Per una strana combinazione ho ripescato in rete un mio post dedicato a questa stagione della vita illustrato con una foto di Chiara che le feci anni fa in un parco di Bologna.
Lo ripropongo con l’idea che il passare del tempo e delle stagioni non alimenta la malinconia e la tristezza della nostra esistenza destinata prima o poi a concludersi, bensì ci aiuta a comprendere il suo continuo divenire e trasformarsi altrove. Il Bardo sa quello che pensa e lo dice nell’unico modo possibile. In maniera poetica. Chiara, che conosce bene la lingua, capirà il valore di questo messaggio. Lei studia biotecnologie.
L’autunno di Shakespeare
Tra i tanti post nei quali mi sono cimentato per celebrare la stagione dell’autunno non poteva mancare un richiamo al poeta dei poeti, il sommo William Shakespeare. Il tema dell’autunno viene da lui affrontato nel sonetto 73, che inizia con questo verso:
“Quella stagione in me tu puoi vedere”.
L’autunno è sinonimo di vecchiaia e per descriverla il poeta utilizza tre diverse metafore: un albero, un giorno, il fuoco. Ma non tutto è drammaticamente pessimistico. Il suo scopo è quello di mettere in evidenza la forza dell’amore.
Nella prima quartina si rivolge alla sua amata (o amato?) alla quale egli fa notare come egli stia invecchiando. Paragona, infatti, il suo corpo all’albero che perde le foglie:
“Foglie gialle, o nessuna, o poche, che pendono”.
I suoi capelli si fanno radi e i pochi rimasti imbiancano ingrigendo. Il grigio di quei capelli un tempo era marrone, un processo di decadimento simile a quello delle foglie gialle che un tempo erano verdi. E come i rami dell’albero che tremano ai freddi venti dell’inverno imminente, le sue membra tremano al mutamento del tempo. Anche la sua poesia diventa come “spogli cori in rovina”. Un tempo non lontano quei versi risuonavano di ben altre espressioni simili a quelle di “dolci canti”.
That time of year thou mayst in me behold,
When yellow leaves, or none, or few do hang
Upon those boughs which shake against the cold,
Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang.Quella stagione in me tu puoi vedere
quando foglie ingiallite, nessuna, o poche, pendono
appese ai rami tremanti contro il freddo,
spogli cori in rovina dove dolci cantavano gli uccelli.
Nella seconda quartina, dall’immagine dell’albero del tardo autunno si passa al processo che subisce il giorno col trascorrere delle ore. Egli è al “tramonto del giorno”, il tempo di quando il sole “svanisce a occidente”. Come il sole affonda lentamente all’orizzonte così la notte scende e porta il sonno alle normali attività del giorno. Per lui che parla, e che è agli ultimi giorni della sua esistenza, la notte diventa “la scura notte” che spegnerà non solo la sua vita ma porterà via anche il “simulacro della morte”, vale a dire il sonno. Egli non potrà più nemmeno riposare poichè la notte scura gli ha rubato la vita.
In me thou seest the twilight of such day,
As after sunset fadeth in the west,
Which by and by black night doth take away,
Death’s second self that seals up all in rest.In me vedi il crepuscolo del giorno
che svanisce a occidente dopo sera,
che porta via pian piano notte nera,
simulacro di morte che nel riposo ogni cosa sigilla.
Nella terza quartina il poeta introduce ancora una nuova metafora paragonando la sua vita, ormai al declino, a quella di un fuoco che “langue sulla cenere della sua gioventù”. Un tempo questa ardeva di luce, ora scema e le medesime cose che alimentarono la sua giovinezza si consumano come il fuoco malinconico e fioco della vecchiaia.
In me thou seest the glowing of such fire,
That on the ashes of his youth doth lie,
As the death-bed, whereon it must expire,
Consumed with that which it was nourished by.In me vedi quel fuoco che sfavilla
e langue sulle ceneri della sua giovinezza,
letto di morte in cui dovrà spirare
consumato con quel che lo nutriva.
Eppure, non tutto è vano. Nel distico finale la sua amata gli offre il suo amore e questo amore è più forte, anche se è alla fine. Pur sapendo che la morte che si avvicina li separerà, essa invita gli amanti a prendersi cura di chi si ama e stare insieme perchè il tempo ormai sta per finire. Il distico suona come un’ammonizione: mano mano che il tempo passa l’amore dovrebbe aumentare.
Non è chiaro se questo invito o considerazione sia rivolta alla persona amata o in fondo a se stesso. Forse ad entrambi poichè dovranno separarsi. In ogni caso il loro destino è segnato dal fato che si caratterizza con l’età, il tempo, la morte e la separazione.
This thou perceiv’st, which makes thy love more strong,
To love that well, which thou must leave ere long.Questo tu percepisci che rafforza il tuo amore,
per meglio amare ciò che presto dovrai abbandonare.
Si possono fare molti confronti tra le immagini ricorrenti di questo sonetto e altre di altri sonetti. Il che spiega la persistenza del simbolismo poetico di Shakespeare, la sua forza di rappresentazione figurativa e il suo determinismo linguistico. Il tema delle stagioni che passano inesorabili lo si trova anche nel sonetto 18, la metafora della vita umana in quella del sole, e quella del fuoco nella terza quartina del primo sonetto.
Il colore giallo, il colore dell’autunno, lo possiamo trovare anche in altri sonetti, il 17 ed il 104 unitamente al trascorrere del tempo. Una possibile traduzione libera del sonetto in prosa inglese moderna potrebbe meglio chiarire il discorso che il poeta svolge all’amata (o amato?) Ve la propongo per aiutare chi non ha molta dimestichezza con la lingua inglese:
“You may see that time of year in me when few, or no, yellow leaves hang on those branches that shiver in the cold bare ruins of the choir stalls where sweet birds sang so recently. You see, in me, the twilight of a day, after the sun has set in the west, extinguished by the black night that imitates Death, which closes everything in rest. You see in me the glowing embers that are all that is left of the fire of my youth — the deathbed on which youth must inevitably die, consumed by the life that once fed it. This is something you can see, and it gives your love the strength deeply to love that which you have to lose soon.”
“Puoi vedere in me quel tempo dell’anno quando le poche o nessuna foglia pende da quei rami che tremano tra le fredde spoglie del coro scomparso, là dove gli uccelli un tempo cantavano. Tu vedi in me il crepuscolo del giorno, dopo che il sole è scomparso a occidente, spento dalla scura notte che imita la morte, la quale chiude ogni cosa al riposo. Tu vedi in me le ceneri ardenti, tutto ciò che mi resta del fuoco della mia gioventù, letto di morte su cui inevitabilmente la giovinezza deve finire, consumata dalla vita che ti nutrì e che presto si dovrà lasciare. Questo è qualcosa che devi vedere e che darà forza al tuo amore di amare profondamente ora ciò che dovrai ben presto perdere.”
Se questa non è vera poesia, mi chiedo cos’è la poesia?
Antonio Gallo Published in Un mondo di poesia Sep 30, 2020