Siamo sempre in attesa …
Il 22 dicembre del 1989 muore a Parigi Samuel Beckett. Non so quante volte ho letto “In attesa di Godot”, sempre alla ricerca di qualcosa che mi fosse sfuggito nelle letture precedenti. Samuel Beckett è uno degli autori moderni che più mi affascinano per l’uso della parola. In particolare in “Godot” per mezzo della parola l’autore cerca di spiegare tutto ciò che della vita non potrà mai essere veramente spiegato. Il mistero dell’esistenza, la paura senza nome e l’ansia del subsconscio della mente umana che sfida la razionalità, ma contro di essa si rompe la testa.
La commedia (ma sarà poi una commedia?) appartiene al cosi detto teatro dell’assurdo essenzialmente un teatro di origini parigine. Di solito lo spettatore si trova davanti ad una situazione onirica e la successione degli eventi è solo apparentemente slegata. Non segue pertanto le sequenze logiche di una mente comune. Le immagini non si succedono ma si incrociano e si associano.
In Godot queste immagini sono noiose, disperate, tediose, inutili nell’attesa che non conduce in nessun dove. Esse diventano sempre più disperate man mano che la commedia evolve. La condizione dell’attesa viene come congelata, ma sono le parole che hanno il sapore del ghiaccio, parole non dette perchè non c’è nulla da dire. La scena ha una sua logica meccanica e ripetitiva. Quasi una paralisi.
E’ la condizione umana dopo tutto. Gli spettatori devono saperlo. Non c’è molta differenza tra il primo e il secondo atto, cambia solo il dialogo e la sequenza degli eventi. Vladimir e Estragon incontrano Pozzo e Lucky, la stessa coppia, ma in differenti circostanze. In entrambi gli atti Pozzo e Lucky, padrone e schiavo, restano legati mentre i vagabondi continuano ad aspettare Godot. I due atti hanno inizio entrambi a sera e si concludono di notte con l’arrivo di un messaggero che riferisce che Godot verrà il giorno dopo e non quella sera. E così l’attesa non ha mai fine per i vagabondi che aspettano Godot il quale continua a promettere una promessa che resterà inappagata. Tutto ciò introduce un nuovo personaggio non reale, ma virtuale: la noia che crea tensione.
I vagabondi sono in attesa di una persona per essere forse salvati e mentre aspettano avvertono il passare del tempo che sottopone ogni cosa al cambiamento. Ma più le cose cambiano, più restano le stesse. Questa è in fondo la terribile stabilità del mondo. Pozzo dice: “Le lagrime del mondo sono sempre abbondanti. Per ognuno che comincia a piangere da qualche altra parte quacun altro smette. Un giorno è come l’altro e quando moriamo possiamo anche non essere mai esistiti”. Tra la nascita e la morte la luce brilla solo per un attimo ma l’uomo spera nella salvezza di Godot che rappresenta il rifugio dei due vagabondi e quindi degli uomini.
I due non sono sicuri di essere capitati nel posto e nel giorno giusto. Questa è la vera condizione umana. Tutti i giorni sembrano gli stessi ed è difficile distinguere tra di essi. La triste condizione di Vladimir e Estragonriflette la confusione del giorno, quel giorno, di ogni giorno. Della vita. I vagabondi non hanno diritti, per questo sono legati. L’incertezza domina la scena. C’è perfino incertezza nella salvezza da parte di Cristo perchè tutto dipende dal caso. Pozzo dice che lui poteva essere Lucky e Lucky essere lui. In senso più ampio Pozzo è il corpo e Lucky la mente. Entrambi, però, sempre intercambiabili.
Tutta la commedia è un puzzle senza senso e scopo, in preda all’ansia ed alla disperazione. Tutto si riflette nei due vagabondi i quali in fondo non riescono nemmeno ed identificare se stessi nei confronti di questa identità che aspettano e che non compare mai. Dei quattro personaggi in scena non ci viene detto nulla, come nulla sappiamo dell’ambiente in cui la scena ha luogo. L’apparente comicità del messaggio ne nasconde uno più profondo continuamente ripetuto. Le parole non dette e le pause sono piene di significato e più esplicite addirittura di quanto non è detto. E’ stato scritto da un critico che “il silenzio penetra in questa commedia come l’acqua in una nave che affonda”. I due vagabondi ci possono sembrare degli estranei ma in fondo ci appartengono per intero. Loro sono noi e noi siamo loro. Persino il palcoscenico vuoto rappresenta la metafora della vita. Siamo noi, spettatori della commedia e compagni spettatori dei due vagabondi a dover riempire il palcoscenico e dare un significato alla nostra esistenza.
Il Godot che non compare mai è il mondo che ci circonda e attende di essere sottomesso altrimenti i vagabondi saranno puniti. E noi, come loro, anche. Secondo Beckett non c’è nulla da dire, nulla con cui ci si possa esprimere, nessuna possibilità di intendersi, nessun desiderio o obbligo di esprimersi.
Godot non è altro che una miniatura divina che gli uomini attendono con speranza e paura per cercare di risolvere il loro problema alla ricerca di un significato alla propria esistenza per la quale essi sono disposti anche a sacrificare il loro libero arbitrio, la loro volontà, unico dono che posseggono.
In conclusione l’inutilità dell’attesa simboleggia l’inutilità della vita umana intrappolata in un mondo che sembra una sala di specchi dalla quale i tentativi di fuga rendono l’azione del prigioniero, con la sua lotta per liberarsi, quanto mai comica. Beckett non poteva essere più pessimista ed estremo di quanto sia stato scrivendo questa commedia che non a caso è “assurda”.
Ma, si badi bene. Tutto resta “assurdo” soltanto se ogni cosa umana viene vista in questo modo. Qohelet, qualche millennio fa, aveva già messo in guardia gli uomini dal pensare che tutto fosse “hebel”, nebbia, inutilità e nulla, se non è visto alla luce di quella entità che Beckett chiama “Godot” che è Dio. Lui non lo dice, ma è chiaro che quell’attesa riguarda la “Sua” attesa.