Shelley, il poeta “matto” nelle “nuvole” della Rete

Antonio Gallo
5 min readSep 4, 2022

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Nei giorni scorsi e’ stato il compleanno di Percy Bysshe Shelley, il poeta inglese morto a soli 29 anni, nato duecento anni fa nel 1792. Un vero e proprio rivoluzionario avanti lettera. Suo padre era un ricco esponente dell’aristocrazia e membro del Parlamento. Aveva messo da parte per suo figlio una grossa fortuna, ma lui non ne volle sapere di studiare e si fece espellere dall’università di Oxford per avere scritto un libello che fece scalpore intitolato Necessità dell’ateismo.

Gli venne offerta la possibilità di ritrarre quello che aveva scritto ma egli rifiutò e a soli 19 anni se ne scappo’ con una ragazza di 16 anni, figlia di un semplice oste. Fu diseredato e da quel punto ebbe iniziò la sua vita avventurosa che, come i romantici dell’epoca, fu tutto un romanzo.

Non sembri strano l’accostamento che sto per fare per l’occasione di questo anniversario, ma questa poesia di Shelley che ho scelto per ricordarlo e che spesso proponevo ai miei studenti, mi offre la possibilità di parlare di un aspetto caratteristico della Rete e quindi dei siti sociali: la loro mutabilità. Come quella che, appunto, il giovane poeta Shelley intravede nelle “nuvole”.

Esse appaiono nel cielo scintillanti di giorno per poi scomparire nella notte. Il tutto avviene improvvisamente, alla stessa maniera in cui appare e scompare la vita umana. Esse sono simili ai suoni, alle melodie di uno strumento, la lira, che emette toni diversi per diverse esperienze.

Le nuvole scorrono sullo schermo del cielo, sia che noi siamo svegli o addormentati. Pensieri vaganti e volubili ci accompagnano e interferiscono nella nostra mente, spesso alterando anche la nostra felicità. Esse, nell’apparire e scomparire, ci somigliano, siamo come loro. Mutevoli e sfuggenti.

Non pensate, allora, che le nuvole siano come i “post” che appaiono in Rete, che scorrono incessantemente sullo stream del Web? Proprio come le “nuvole”. Ecco la poesia:

We are as clouds that veil the midnight moon;/How restlessly they speed, and gleam, and quiver,/Streaking the darkness radiantly! — yet soon/Night closes round, and they are lost forever:/Or like forgotten lyres, whose dissonant strings/Give various response to each varying blast,/To whose frail frame no second motion brings/One mood or modulation like the last./We rest. — A dream has power to poison sleep;/We rise. — One wandering thought pollutes the day;/We feel, conceive or reason, laugh or weep;/Embrace fond woe, or cast our cares away:/It is the same! — For, be it joy or sorrow,/The path of its departure still is free:/Man’s yesterday may ne’er be like his morrow;/Nought may endure but Mutability.

Mutabilità

Noi siamo come nuvole che velano la luna a mezzanotte;/Così irrequiete sfrecciano, sfavillano, fremono,/striando l’oscurità radiosamente! — eppure, subito/la notte si richiude intorno e le cancella:/o come dimenticate lire, le cui corde dissonanti/danno, a ogni diverso soffio del vento, una risposta nuova,/alla cui fragile struttura nessuna vibrazione nuova apporta/un tono o una modulazione simile all’ultimo./Noi riposiamo, e un sogno ha la forza di avvelenarci il sonno./Ci alziamo, e un pensiero errante può inquinare il giorno./Sentiamo, concepiamo o ragioniamo, ridiamo o piangiamo,/ci disperiamo, o gettiamo via ogni affanno:/è tutto uguale! Sia una gioia che un dolore,/il percorso da compiere dal suo abbandono non si è ancora concluso:/l’ieri dell’uomo non può mai essere simile al domani;/niente nel mondo può durare, eccetto la Mutabilità.

Alla tipica maniera romantica, il giovane poeta Shelley subito colloca l’uomo nella sua giusta dimensione: “Siamo nuvole”, egli dice. E poi subito aggiunge qualcosa alla caratteristica di essere umani quando paragona gli uomini a cose inventate, usando la similitudine delle “lire dimenticate”.

L’eterna condizione umana soggetta al mutamento, al cambiamento. Una condizione sia naturale, come le nuvole che ora sono qui, ora altrove, ora in una forma, in un momento in un’altra, pronte anche a sparire per sempre. E poi, quella lira, dai toni mutevoli, soggetta a stimoli diversi.

Tutto è cambiamento. Proprio come i post, i messaggi, le comunicazioni che scorrono sullo schermo del pc, del cell e di tutti gli altri gadget dedicati alla comunicazione. Tutto si trasforma, si confonde, si disperde in una “nuvola” che fa “memoria”, si gonfia sempre di più, inconstante, incontrollata e incontrollabile.

Nell’universo romantico di Shelley le nuvole assumono la dimensione dei pensieri e delle emozioni che appaiono e scompaiono nella mente degli uomini. Nell’universo digitale della Rete, nella grande “bolla” di Google che tutto inghiotte e tutto restituisce, vera e propria “world wide mind”, una Rete che diventa Mente. Sempre eguale a se stessa, ma sempre diversa, Proprio come la mente umana. Condannata alla “mutabilità”.

Che dire poi di Shelley nel suo sonetto Ozymandias, sulla statua in rovina del Faraone Ramses a Tebe, con i suoi ricordi che nulla è per sempre e che anche il più grande potere deve svanire? Potrebbe trattarsi del principe reggente (la poesia fu scritta nel 1817–1818), o semplicemente motivata dall’acquisizione da parte del British Museum della testa e del busto della statua, nota come Younger Memnon: sebbene Shelley avrebbe scritto il sonetto prima di vedere la statua. La durezza del suo ritmo accentua la vividezza della sua dizione:

OZYMANDIAS

I met a traveller from an antique land
Who said: Two vast trunkless legs of stone
Stand in the desert… Near them on the sand,
Half sunk, a shattered visage lies, whose frown
And wrinkled lip, and sneer of cold command
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamped on these lifeless things,
The hand that mocked them, and the heart that fed.

And on the pedestal these words appear:
“I am Ozimandias, King of Kings.
Look on my works ye Mighty, and despair.”

Nothing besides remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.

OZYMANDIAS

Un viaggiatore ho incontrato, giunto da un paese antico,
mi disse: “Due immense gambe di pietra prive di tronco
si ergono nel deserto…Vicino ad esse sulla sabbia,
mezzo sepolto, giace un volto in frantumi, il cui cipiglio
e il corrugato labbro, e il ghigno di freddo comando,
rivelano che lo scultore assai bene colse quelle passioni
che ancora sopravvivono -impresse in quegli oggetti senza vita-
a quella mano che le raffigurò e all’anima che le nutrì.

E sopra il piedistallo stanno incise queste parole:
“Ozymandias è il mio nome, il Re dei Re:
guardate alle mie opere, o potenti, e disperate!”

Null’altro rimane. Attorno allo sfacelo
di quel rudere immenso, sconfinato e nudo,
si stende delle sabbie, solitario, il piano.

Questo può essere vero per il potere mortale, ma non per i poeti immortali. L’appello alla non violenza, confrontato con la sfacciata sete di sangue del potere, è formulato nel contesto delle antiche libertà dell’Inghilterra e del pericolo di un governo che le smantelli. È rilevante oggi come ieri. Il giovane poeta continua ad essere “matto” oggi.

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Antonio Gallo
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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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