Scrittura creativa: immaginando il peggio. L’incertezza del vivere.

Antonio Gallo
18 min readDec 4, 2021

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BOSTON REVIEW

“Immaginare il peggio. Come il pensiero filosofico può rendere possibile il vero anche quando la verità può a malapena essere immaginata.”

Questo il titolo dell’articolo con il relativo sottotitolo pubblicato sulla rivista Boston Review a firma di Oded Na’aman. Il tema è l’Incertezza del vivere. Chi scrive è un noto filosofo, saggista e scrittore Israeliano, professore di filosofia presso l’Università di Gerusalemme. Ho letto l’articolo con molta attenzione e ho pensato di usarlo traducendolo ed inserendolo nella mia attività di scrittura creativa in Rete, qui su MEDIUM. Continuo a leggere, scrivere, navigare, tradurre, scoprire, dare forma ai pensieri e sostanza al mio fare quotidiano per combattere, appunto, l’incertezza del vivere di cui parla questo filosofo israeliano sulle pagine di una rivista d’oltre oceano. Visioni e pensieri comuni, condivisibili, che possono aiutarci e vivere, facendoci capire, se possibile, quello che potrà essere il “peggio”.

Dopo due anni stiamo meglio, per ora. Almeno così dicono. Cosa fare se le cose peggiorano? La domanda sembra avvicinare sempre di più la nostra fine. Provate a pensare ad altre cose. Guardate fuori. Ascoltate il vostro respiro. Leggere un libro? Operate. E tu fai qualcosa. Guardare la televisione? Cerca in rete. Meglio essere ignoranti? Non rispondere a questa domanda. Datti da fare. Opera. Vai a correre. Twitta. Rispondi a Facebook. Pubblica qualcosa. Aspetta le reazioni. Stai con gli amici. Fai un drink. Ascolta il tuo alter ego. Opera. Guarda il cielo. Ma noi stiamo bene. Stiamo bene, per ora. Cosa fare con la prospettiva di un futuro peggioramento delle cose? Abbiamo un problema? Ci preoccupiamo troppo? Abbiamo bisogno di cure? O è il contrario? Non ci preoccupiamo abbastanza? Se solo potessimo trovare il coraggio di affrontare la minaccia, qualunque forma essa assuma, allora potremmo avere la possibilità di prevenirla. Saremmo pronti. Ma no. No, anche il pensiero che possiamo fare qualcosa è un’illusione. Un po’ più o meno di tempo, non farebbe la differenza nel grande schema delle cose. Non c’è niente che possiamo fare al riguardo. Non importa quando, la fine arriverà troppo presto. Ma adesso? Perché non possiamo almeno essere vivi ora? Immaginiamo come/cosa accadrà. Quando lo ignoriamo, lo sentiamo in agguato, perseguitandoci. Abbiamo un problema. Abbiamo bisogno di aiuto. La nostra mente non può farcela da sola. La nostra immaginazione ci tormenta con impossibili visioni della realtà.

Per noi che viviamo nel mondo moderno, psicologi e psichiatri sono i dottori della mente. Ma secondo Cicerone, dovremmo rivolgerci invece alla filosofia. A differenza della scienza medica del corpo, dice Cicerone, la filosofia si autosomministra. La filosofia è qualcosa che ci aiuta da sola, ma abbiamo bisogno anche degli altri. Non ci può guarire da sola. Ma in che senso siamo noi stessi i guaritori se ci affidiamo ai filosofi per insegnarci? E perché dovremmo ascoltare i filosofi in primo luogo: se la cavano davvero meglio di noi?

Seneca nelle sue “Lettere a Lucilio” scrive: “Come mai mi stai consigliando?”, tu dici. “Ti sei già consigliato? Tu ti senti meglio? Non sono così ipocrita da offrire cure mentre sto male io stesso. No, sono sdraiato nella stessa corsia, per così dire, a conversare con te del nostro comune malanno e della condivisione dei rimedi.Quindi ascoltami come se stessi parlando a me stesso: ti sto facendo entrare nella mia stanza privata e mi sto dando istruzioni mentre sei in attesa”.

I filosofi non hanno risposte, la filosofia sì. Inoltre, le risposte della filosofia sono più che conclusioni supportate da argomenti, sono movimenti e abitudini di pensiero. La filosofia è un’attività, un esercizio quotidiano della mente; una conversazione con gli altri che è anche una conversazione con se stessi. Intese così, le ragioni filosofiche sono forme di indirizzo: sono dette o scritte da qualcuno a qualcuno (sebbene a volte, entrambi siano la stessa persona). Il loro significato non può essere compreso correttamente se astratto dalle circostanze del loro verificarsi. Il pensiero filosofico è un tentativo di salvare la mente dalle sue stesse trappole. Filosofare è cercare la via quando ci si perde.

L’ambivalenza è incorporata in questo modello di filosofia. È un errore cercare di districare l’astratto dal concreto, il contenuto dallo stile, la parola dai fatti. Il pensiero filosofico è un tentativo di salvare la mente dalle sue stesse trappole. Filosofare è cercare la via quando ci si perde. Coloro che fanno affermazioni filosofiche grandiose, universali e decisive, sulla ragione, sulla razionalità o sulla verità, sono spesso coloro le cui vite sono in disordine.

Questo non vuol dire che tali affermazioni debbano essere insincere, né mettere in dubbio la loro veridicità. Piuttosto, il fatto che affermazioni filosofiche universali siano sempre fatte da singole persone con desideri e paure particolari significa che tali affermazioni esprimono molto più di quanto lasciano intendere. Il loro significato si estende oltre il loro contenuto esplicito. È con questo in mente che possiamo rivolgerci alla filosofia per chiedere aiuto.

Gli antichi credevano che la filosofia potesse insegnarci come vivere di fronte alla nostra inevitabile rovina. Ma erano di due posizioni diverse: alcuni, con Epicuro, pensavano che dovremmo distogliere lo sguardo dalle future sofferenze e sventure, mentre altri, con gli Stoici, pensavano che dovremmo fissare lo sguardo sui mali che ci aspettano. Troviamo entrambi gli approcci in Seneca. A volte fa appello a uno, a volte all’altro. Nella lettera 24 scrive a Lucilio:

“Scrivi che sei preoccupato per l’esito di una causa che la rabbia di un nemico ha portato contro di te. Supponi che ti esorto a fissare i tuoi pensieri sul meglio e ad alleggerire la tua mente con aspettative confortanti. In fondo, che bisogno c’è di anticipare i guai futuri, rovinando il presente con la paura del futuro? Quando arrivano i guai c’è tempo sufficiente per sopportarli. Sicuramente è sciocco essere infelici ora solo perché lo sarai in seguito! Ma quello che farò è condurti su una strada diversa verso la tranquillità. Se vuoi liberarti della preoccupazione, fissa la tua mente su qualunque cosa tu abbia paura possa accadere come una cosa che sicuramente accadrà. Qualunque brutto evento possa essere, prendine misura mentalmente e quindi valuta la tua paura. Presto ti renderai conto che ciò di cui hai paura non è una cosa importante o non dura a lungo.”

Seneca raccomanda qui un metodo preferito dagli stoici. Cicerone la chiama “praemeditatio futurorum malorum”: “la prova preliminare dei mali futuri”. Cicerone attribuisce il metodo ad Anassagora, il quale, dopo aver appreso della morte di suo figlio, avrebbe detto: “Sapevo che mio figlio era mortale”. L’allievo di Anassagora, Euripide, il grande tragico greco, mette in bocca a Teseo il seguente discorso: “Pensai in cuor mio sulle miserie / a venire / . . . non essere / impreparato, non lacerato all’improvviso dal dolore”. Inizialmente questo esercizio peculiare, incentrato sulla nostra situazione futura, potrebbe sembrare che assecondi la nostra ansia piuttosto che calmarla.

Potremmo quindi essere inclini a concordare con Epicuro, che, secondo Cicerone, rifiutò il metodo e raccomandò invece di distrarre la mente dalla sofferenza e di reindirizzarla ai piaceri. Cicerone, tuttavia, si schiera con gli stoici. Niente fa tanto per attenuare l’impatto dell’angoscia quanto questa pratica di pensare in ogni momento che non c’è sventura che non può capitarci. . . . Il risultato non è che siamo sempre tristi, ma che non lo siamo mai affatto. Non si rattrista una persona pensando alla natura delle cose, alla mutevolezza della vita e alla debolezza dell’umanità; anzi, è soprattutto in questo che si ottengono i benefici della sapienza.

La pre-prova dei mali futuri dovrebbe aiutarci in tre modi interconnessi. Primo, contemplando le disgrazie future evitiamo di esserne sorpresi, e questo, si pensa, ne diluisce l’impatto. Seneca dà voce a questa idea quando scrive: “Quando si è impreparati a un disastro, ha un effetto maggiore: lo shock intensifica il colpo. Nessun mortale può non addolorarsi più profondamente quando alla perdita si aggiunge lo stupore”. Così, attraverso la praemeditatio, ci liberiamo dell’illusione della sicurezza e di un falso senso di immunità. La perdita è sempre vicina e spesso casuale, improvvisa e rapida.
La perdita è sempre vicina e spesso casuale, improvvisa e rapida. La sofferenza non ci isola; al contrario, attraverso la sofferenza sperimentiamo la nostra umanità.

Il secondo vantaggio della riflessione sui mali futuri è che normalizza la perdita e la sofferenza come necessarie e umane. Cicerone scrive che “si comprende che i guai fanno parte della vita umana, e che sopportarli, come dobbiamo, è anche umano”. La sofferenza non ci isola; al contrario, attraverso la sofferenza sperimentiamo la nostra umanità. Seneca aggiunge che poiché la sofferenza è destino di tutti, non abbiamo motivo di lamentarci, scrivendo: “dovremmo pagare senza lamentarci le tasse della nostra moralità”.

Riconoscere che la sofferenza è inevitabile e onnipresente ha lo scopo di aiutarci ad accettarla. Euripide, citato da Cicerone, scrive: «Nessuna vita mortale che non sia toccata dal dolore / e dalla malattia. Molti devono seppellire i bambini / e generarne di nuovi; la morte è ordinata per tutti. / E gli uomini provano ansia per questo — invano: / la terra deve tornare alla terra, e la vita per tutti / essere falciata, come il grano. La necessità insiste».

Ma in che modo la necessità della sofferenza procura un qualche conforto? Cicerone considera anche questo punto: “il fatto che siamo soggetti a tale crudele necessità… non è di per sé motivo di afflizione[?]” Risponde che tale pensiero è una forma di vanità. Non siamo dei; accettando la sofferenza, accettiamo la nostra umanità. Invece di aggrapparci alla falsa speranza che saremo risparmiati e lamentarci del nostro destino quando arriverà inevitabilmente il momento di soffrire, dobbiamo prendere ispirazione da altri che hanno sopportato la perdita e la sofferenza con grazia. Mentre l’indignazione esacerba la nostra sofferenza, l’accettazione la riduce.

Seneca raccomanda il seguente dialogo interno tra se stessi e il proprio dolore: “Tu sei solo dolore, che quel tipo artritico lì disprezza, che il dispeptico sopporta a pasti fantasiosi, che la più semplice ragazza sopporta durante il parto”. Il beneficio finale di contemplare le disgrazie future è che ci si rende conto che questi eventi non sono malvagi. Tutto ciò che la fortuna può toglierci, dice Seneca, non può contribuire alla felicità: “la vita felice consiste unicamente nel perfezionare la nostra razionalità; poiché la razionalità perfetta è l’unica cosa che tiene alto lo spirito e si oppone alla fortuna”.

La ragione è invulnerabile alle contingenze e alle disavventure. Così, identificandoci con la ragione, ci immunizziamo alla perdita. Solo provando i mali futuri possiamo realizzare un’identificazione virtuosa con la ragione e arrivare a vedere i mali come insignificanti. Infatti, dice Cicerone, noi impariamo da questo metodo della ragione ciò che impariamo dall’esperienza del lutto man mano che diminuisce col tempo: «a poco a poco col tempo il dolore diminuisce . . . perché l’esperienza ci insegna la lezione che la ragione avrebbe dovuto insegnarci, che ciò che sembrava così grave non è in realtà molto significativo”.

La pre-prova dei mali futuri mira ad allentare i nostri attaccamenti e disfare il nostro amore per persone particolari. Ma dovremmo rinnegare i nostri attaccamenti a tutto ciò che può essere perso? La prova preliminare dei mali futuri è quindi un esercizio per allentare i nostri attaccamenti e identificazioni, e disfare il nostro amore per persone e luoghi particolari. Pierre Hadot descrive le pratiche stoiche come “un movimento di conversione verso il sé” che è anche un movimento verso “un nuovo modo di essere-nel-mondo, che consiste nel prendere coscienza di sé come parte della natura, e parte della ragione universale».

Dovremmo accettare questa aspirazione a rinnegare i nostri attaccamenti a tutto ciò che può essere perso? È difficile, ad esempio, accettare l’affermazione di Cicerone secondo cui la perdita dei nostri cari non è degna di essere addolorata. Ma è qui che bisogna ricordare l’ambivalenza del pensiero filosofico degli antichi. Non dobbiamo separare l’affermazione di Cicerone sull’insignificanza della perdita dalle circostanze in cui è stata concepita e scritta. Era in preda al dolore quando scriveva le Tusculanae Disputationes, l’opera in cui compaiono queste affermazioni. La sua unica figlia, Tullia, che adorava, morì poco dopo aver dato alla luce il suo primo nipote.

Nelle sue lettere personali di quel tempo, Cicerone racconta l’angoscia violenta che ha preso il sopravvento: il desiderio di essere solo, lunghe passeggiate nei boschi e pianto incontrollabile. “Leggere e scrivere non mi confortano ma mi distraggono”, scrive. In effetti, si è aggrappato al suo dolore: “Cerco in ogni modo possibile di riparare il mio volto, anche se non il mio cuore. A volte penso di sbagliare a farlo, altre volte che sbaglierò a non farlo.

Ha intrapreso una frenesia di scrittura. Tra le varie opere che scrisse nei mesi successivi alla morte della figlia c’era Consolation, “che composi in mezzo al dolore e al dolore, non essendo io stesso una persona saggia. Ho applicato un rimedio al gonfiore della mente mentre era ancora fresco. Ho portato la forza della natura su di esso, in modo che il mio grande dolore lasciasse il posto alla grandezza della medicina “.

Ci sono alcune cose a cui ogni persona onesta e amorevole deve rispondere con angoscia e orrore. Come Seneca, Cicerone stava filosofeggiando per guarire se stesso. Quello che inizialmente appare come il rifiuto spietato di Cicerone del significato della perdita è, in realtà, il pianto di un padre in lutto e di una mente angosciata che cerca disperatamente di orientarsi. Quando la filosofia è allo stesso tempo un’indagine ragionata delle verità eterne e una pratica di auto-aiuto, una teoria e una conversazione, anche l’affermazione filosofica più decisiva è immersa nell’ambivalenza.

Nel provare i mali futuri Cicerone stava anche provando quelli passati, ma la domanda che si pone non riguarda né il futuro né il passato. Piuttosto, chiede: che cosa, semmai, dovrebbe rovinarci? È mai richiesto il dolore abietto ed eterno? Non si tratta di come evitare il dolore della perdita, ma se abbiamo motivo di provarlo. La risposta alla domanda determina, allo stesso tempo, la nostra relazione con i mali passati e futuri.

È comprensibile che dovremmo voler essere giustificati nel cercare sollievo, specialmente quando la perdita getta la sua ombra su di noi. Ma davvero ci mancano motivi per essere angosciati dalla perdita? Una risposta affermativa ci sarebbe di conforto solo se vera. In effetti, gli stoici credevano che una risposta affermativa sia vera, ci manca motivo per il dolore, e che dobbiamo usare la nostra immaginazione per vedere questa verità.

La risposta stoica è, credo, sbagliata. Ci sono alcune cose a cui ogni persona onesta e amorevole deve rispondere con angoscia e orrore. Ma l’idea stoica che arriviamo a conoscere le cose per quello che realmente sono solo attraverso l’immaginazione mi colpisce come profonda e sconcertante. L’immaginazione non ci porta fuori strada? Non è l’immaginazione la ragione per cui proiettiamo sulla realtà le nostre paure ei nostri desideri, e non riusciamo a vederla per quello che è? L’immaginazione può certamente ingannarci, concorderebbero gli stoici, ma solo quando la lasciamo scatenare.

Quando correttamente eseguita, la prova preliminare dei mali futuri sottopone l’immaginazione al detto della ragione e all’autorità della volontà razionale. Espone così come “indifferente”, cioè né buono né cattivo, ciò che inizialmente appariva malvagio. Quando esercitata in modo virtuoso, la nostra immaginazione aiuta a sottomettere i demoni della mente e negare alla realtà esterna la forza che spesso ha su di noi.

Gli stoici consigliano anche di praticare e sviluppare l’immaginazione. Dobbiamo lavorare per espanderla e immaginare in modo veritiero, senza distorcere l’oggetto immaginato secondo i nostri desideri o paure. Non possiamo evitare il terrore dei mali futuri smettendo di immaginarli del tutto, ma non dovremmo nemmeno lasciare che la nostra immaginazione dia vita alle nostre ansie.

La nostra immaginazione aiuta a sottomettere i demoni della mente e negare alla realtà esterna la forza che spesso ha su di noi. Se consideriamo sinceramente ogni possibile male, niente può scioccarci o ferirci. Gli stoici erano ottimisti non solo perché pensavano che una persona virtuosa non potesse subire il male e la perdita, ma anche perché pensavano che la nostra immaginazione non avesse limiti. Se ci lavoriamo, credevano, possiamo immaginare il peggio che potrebbe capitarci: se consideriamo sinceramente ogni possibile male, niente può scioccarci, meritare la nostra indignazione o ferirci. Staremo bene.

Immaginare l’inimmaginabile. Non si tratta solo di morte. Non siamo semplicemente terrorizzati dalla nostra futura scomparsa; siamo terrorizzati dalla fine di ciò che amiamo. Abbiamo il terrore di vivere in un mondo vuoto, un mondo che è stato sventrato. Ci sono disastri a cui non vogliamo sopravvivere; cambiamenti che non vogliamo sopportare.

Alcune cose dovrebbero distruggerci, ma potrebbero non farlo. La prospettiva di sopravvivere a tale perdita è fonte di terrore. Immaginando mali futuri, contempliamo la nostra attuale separazione da ciò che amiamo. Il nostro terrore è una forma di rivolta: in nome dell’amore, ci rifiutiamo di immaginare.

In Year of Magical Thinking Joan Didion scrive della morte di suo marito, John, e del suo rifiuto di immaginare la sua vita senza di lui. Sebbene sappia a un certo livello che se n’è andato, non può crederci. Nel negare la realtà, ricorre a quello che chiama “pensiero magico”: in qualche modo John tornerà a casa e indosserà di nuovo i suoi vestiti, avrà di nuovo bisogno delle sue scarpe e si siederà di nuovo sulla sua sedia. Non riesce a immaginare la morte di John. Certo, Didion sa che John è morto, ma non ci crede nel modo in cui si crede che qualcosa sia reale.

Può sembrare strano, ma riconoscere qualcosa come reale richiede di immaginarlo come tale. Il semplice fatto della realtà non è sufficiente. Abbiamo il terrore di vivere in un mondo vuoto. Ci sono disastri a cui non vogliamo sopravvivere; cambiamenti che non vogliamo sopportare. Alcune cose dovrebbero distruggerci, ma potrebbero non esserlo. La prospettiva di sopravvivere a tale perdita è fonte di terrore.

Dove ci conduce, allora, l’immaginazione stoica? Nonostante tutta la sua preoccupazione per la realtà e la verità, lo stoicismo si presta all’elusione. Quando Cicerone nega il significato della perdita e l’adeguatezza del dolore, nega la realtà. Come Didion, esercita il pensiero magico, rifiutandosi di immaginare il peggio, che la sua unica figlia, la cui esistenza ha dato un senso alla sua vita, se ne sia andata.

Preferirebbe immaginare che lei non sia mai stata così importante per lui come suggerisce il suo dolore: “ciò che sembrava così serio non è in realtà molto significativo”. Cicerone non nega la realtà negando l’evento della morte della figlia; nega la realtà negando la sua morte come una perdita. Così, nei suoi proclami stoici, Cicerone rivela le carenze dell’immaginazione.

È più facile per lui immaginare che nessuno possa essere così importante da meritare l’angoscia del dolore che immaginare che Tullia, la cosa più importante della sua vita, se ne sia andata per sempre. Se guardato abbastanza a lungo, lo stoicismo comincia a sembrare nichilismo.
Ma non dovremmo giudicare Cicerone troppo duramente. Una qualche forma di pensiero magico sembra essere necessaria quando muore una persona cara.

È un obbligo di amore e devozione resistere all’idea che la vita continuerà senza qualcuno che amiamo profondamente. Anche se vogliamo che i nostri cari continuino a vivere dopo che ce ne saremo andati, saremmo infastiditi dal pensiero che potrebbero continuare con le loro vite senza perdere un colpo.

Non vogliamo perderci senza combattere. Tuttavia, lo stesso amore e devozione richiedono anche il riconoscimento della perdita e del suo significato. “Sapevo che mio figlio era mortale”, disse Anassagora, l’eroe degli Stoici. Forse questo significa che per apprezzare coloro che amiamo, dobbiamo anche apprezzare la meraviglia, la brevità e la finitezza della loro esistenza.

La certezza della perdita futura è al centro dell’amore, gli dà vita e fa contare anche i momenti più noiosi. L’amore emana comandamenti contrastanti: resisti; lascia andare. Come nel pensiero filosofico, così nello spazio tra noi e coloro che ci sono più vicini troviamo un’ambivalenza ineliminabile. Che varie cose siano simultaneamente immaginabili e inimmaginabili è essenziale per l’amore, il nostro senso di sé e il nostro senso di ciò che è reale.

Quando immaginiamo una vita diversa, con un marito o una moglie diversi, genitori o figli diversi, in una parte diversa del mondo, con un linguaggio e un clima diversi, normalmente non possiamo immaginare la nostra fantasia come realtà. Cioè, ci concediamo la fantasia in quanto tale; ci godiamo da lontano. Riconoscere qualcosa come reale richiede di immaginarlo come tale. Il semplice fatto della realtà non è sufficiente.

Prendiamo ad esempio il cinema: troviamo sollievo dalla nostra vita e dal momento presente donandoci al dramma, alla tragedia, alla suspense o all’orrore che viene proiettato sullo schermo. Possiamo farlo perché nel buio della sala cinematografica ci sentiamo al sicuro dalla fantasia in cui siamo immersi.

Un film potrebbe essere una perfetta rappresentazione della realtà, ma se rimaniamo consapevoli della nostra posizione rispetto a ciò che rappresenta, non la scambiamo per realtà (il serial killer è a piede libero, ma noi non siamo mai sue potenziali vittime; il Il Titanic sta affondando, ma noi non affogheremo).

Questo è vero per la finzione e per l’arte in generale: un senso di sicurezza, di distanza, è una condizione per le fantasie più avvincenti. Tuttavia, se immaginiamo la vita di fantasia come una possibilità reale, come qualcosa che potremmo scegliere data la possibilità o qualcosa che potremmo sopportare, allora la vita reale diventa spesso più difficile da sostenere. È un fenomeno che molti di noi conoscono: più la fantasia ci sembra vicina, meno possiamo accettare la realtà.

All’estremo, ci allontaniamo dalle persone nella nostra vita e da noi stessi. Quando la vita reale diventa inimmaginabile come realtà, la assistiamo come da un punto di vista esterno, da un cinema in un altro mondo. Da questa posizione esterna, i pensieri senza senso diventano significativi: sono questo chi sono? È così che vivo?

A volte una persona potrebbe sperimentare qualcosa di così in contrasto con il suo senso della realtà che da allora in poi è intrappolata in un altro mondo. In The Great War and Modern Memory, Paul Fussell spiega la tendenza dei soldati a vivere la guerra come “irreale”. Scrive: “è impossibile per un partecipante credere di prendere parte a un simile procedimento omicida nel suo stesso carattere. L’intera faccenda è troppo grossolanamente farsesca, perversa, crudele e assurda per essere accreditata come una forma di “vita reale”. .’”

Avere un senso reale dell’esperienza della guerra significa avere un senso dell’esperienza della guerra come irreale. Fussell fa un esempio da How Young They Died di Stuart Cloete, un romanzo sulla prima guerra mondiale, in cui Jim Hilton, ferito, si fa strada nelle retrovie: “La cosa curiosa era che non era qui; era da qualche altra parte. In un luogo elevato, . . . guardando questa figura solitaria che si fa strada tra i buchi delle conchiglie. Pensò: quello è il giovane capitano Jim Hilton, quella figurina. Chissà se ce la farà. . . . Era un osservatore, non un partecipante. Era sempre così in guerra, anche se non se ne era reso conto prima. Non sei mai stato tu. La parte io di te era da qualche altra parte.”

L’esperienza della guerra non finisce con la guerra. Si è bloccati nell’esperienza proprio perché non ci si riconosce in essa. L’irrealtà della guerra si estende ad altri ambiti della propria vita, finché tutto si colora di eventi che non si possono ricordare ma non si può fare a meno di ricordare. Si resta sempre in esilio, “da qualche altra parte”, mai se stessi.

A volte una persona potrebbe sperimentare qualcosa di così in contrasto con il suo senso della realtà che da allora in poi è intrappolata in un altro mondo.
Ma anche quelli di noi abbastanza fortunati da trovare la realtà immaginabile hanno ancora bisogno di immaginare altri mondi per preservare il nostro senso del reale. Le nostre fantasie, mentre esprimono desideri e frustrazioni reali, spesso raggiungono cose che non vogliamo veramente. Oppure li vogliamo davvero, forse anche disperatamente, ma non vogliamo che siano reali.

Questa distanza dalla fantasia ci permette anche di contemplare le nostre paure. In un saggio sulla tragedia e la sua importanza per il pensiero morale, Bernard Williams scrive che ci sono mali che possono essere riconosciuti solo nella finzione: “Quando . . . [Nietzsche] disse che abbiamo l’arte per non perire dalla verità, non voleva dire che usiamo l’arte per sfuggire alla verità: voleva dire che abbiamo l’arte in modo da poter afferrare la verità e non perire a causa di essa”. Verità che non possiamo sopportare nella realtà, che spesso possiamo affrontare nella finzione.

Nell’arte proviamo mali che non possiamo, e forse non dovremmo, immaginare come reali. L’ambivalenza dell’immaginazione, come l’ambivalenza del pensiero filosofico, rende possibile la veridicità anche quando la verità può a malapena essere scandagliata. Immaginare i mali.

Siamo tormentati dall’immaginazione dei mali passati e futuri. Quindi cerchiamo di evitarli distraendoci o convincendoci che sono più piccoli di loro, che non devono preoccuparci. Queste manovre vanno solo fino a un certo punto. A meno che non scendiamo nella follia ed evitiamo del tutto la realtà, dobbiamo percepire la presenza di cose che i nostri amori e attaccamenti ci impediscono di immaginare.

I mali passati e futuri ci tormentano perché sono allo stesso tempo reali (perché il mondo è così com’è e gli esseri umani sono come sono) e impossibili (perché stiamo per perdere tutto, o perché tutto è già stato perso e noi siamo ancora qui ). Dobbiamo riconoscere la realtà dei mali perché negarli potrebbe portarci a negare il valore delle persone e delle cose che non possiamo immaginare di perdere.

Eppure dobbiamo riconoscere la realtà dei mali perché negarli potrebbe portarci, con Cicerone, a negare il valore delle persone e delle cose che non possiamo immaginare di perdere. Negare che la morte di Tullia sia una perdita è negare che la vita di Tullia sia stata preziosa; è rinnegare Tullia e coloro che l’amavano. Per Cicerone è anche abnegazione. Come il topo nella “Piccola favola” di Kafka, cambiamo direzione per sfuggire alla trappola, ma corriamo direttamente nella bocca del gatto. L’evitamento ci consuma.

Il Re Lear di Shakespeare è un’esplorazione di questa situazione e delle sue orribili implicazioni. Come Cicerone, re Lear rinnega sua figlia, Cordelia, l’unica persona che ama, mentre è ancora in vita. Stanley Cavell, nel suo saggio “The Avoidance of Love: A reading of King Lear”, scrive che la motivazione dominante di Lear è quella di evitare di essere riconosciuto. Per evitare il suo amore per Cordelia, Lear la umilia; per evitare la vergogna del suo tradimento, Lear evita se stesso e il mondo. Scendendo nella follia, Lear chiede: “Chi è che può dirmi chi sono?” Il Matto risponde: “L’ombra di Lear”.

Cavell scrive di questo scambio. Supponiamo che il Matto abbia risposto con precisione alla domanda di Lear, che è solo sua caratteristica. Quindi la sua risposta significa: L’ombra di Lear può dirti chi sei. Se questo viene ascoltato, vorrà dire che la risposta alla domanda di Lear è contenuta nell’inevitabile Lear che ora è oscuro e oscurante, e nell’inevitabile Lear che si proietta sul mondo, e che Lear è doppio e ha un doppio. . . [il dramma] schernisce i personaggi con la loro mancanza di completezza, la loro separazione da se stessi, con la perdita o la negazione o l’opposizione.

Non stiamo bene. Siamo pronti a perdere tutto, o forse tutto è già stato perso. Eppure eccoci qua. Nella finzione, nell’arte, troviamo uno spazio tra il reale e l’impossibile dove possiamo provare i mali, uno spazio dove possiamo riconoscerci nei nostri doppi ed essere riconosciuti dagli altri.

L’ambivalenza, si scopre, è un percorso verso un luogo in cui la mente può vagare libera, al sicuro dalla realtà, studiando se stessa e il mondo che occupa studiando altre menti e mondi. “Siamo doppi in noi stessi”, ha scritto Montaigne, “crediamo ciò in cui non crediamo e non possiamo liberarci di ciò che condanniamo”. Non stiamo bene. Eppure eccoci qua.

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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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