Quando “eravamo giovani” nei fatidici anni sessanta
Quattro anni dividono l’autrice del libro dal suo recensore e otto da me che scrivo questo post. Io sono, pertanto, senza dubbio un “dinosauro”, loro due sono due persone “non più giovani”. Lei ha scritto questo libro la cui copertina vedete qui sopra. Lui è un famoso scrittore, direttore editoriale e polemista, lei è un’altrettanto nota ed autorevole scrittrice giornalista. La passione giornalistica che li accumuna mi offre l’occasione per condividere i loro pensieri e riflessioni sul tempo che abbiamo vissuto: quando “eravamo giovani”.
Io, che sono “nessuno”, è pur vero che li leggo da quando ho memoria. Specialmente Vittorio Feltri. Ha scritto sul suo giornale LIBERO un appassionato articolo-recensione sul libro della collega Maria Luisa Agnese condividendo con lei malinconici pensieri sui famosi e fatidici anni sessanta. Un particolare tipo di malinconia, che confina con la nostalgia, uno dei sentimenti per lui più dolci.
Per le mie letture, sono sempre attento a scegliere libri che mi diano la possibilità di ricostruire fatti, situazioni ed eventi che mi hanno colpito ed interessato e che scopro condivisibili anche con persone, come queste due, che non ho mai incontrato nè conosciuto.
E’ il destino nella scrittura di ogni essere umano, andare alla ricerca del tempo perduto, nella speranza di ritrovarlo nel presente. Da quello che ho capito, sia nell’autrice del libro che nel suo amico recensore, c’è tutto un mondo da rimpiangere.
Nel libro che ho letto in versione Kindle la narrazione della Agnese inizia con la famiglia, con la quale, in quegli anni, era solita trascorrere le sue vacanze ascoltando musica discutendo di costume e varia cultura, senza tralasciare la politica.
Un viaggio che dura dieci anni raccontato a fil di cronaca, in maniera tutta femminile che si conclude con il pensiero preoccupato di John Kennedy condiviso dalla scrittrice su quanto siamo disposti a fare per il bene del proprio Paese. Una preoccupazione più che giustificata.
Ogni generazione farebbe sempre bene a porsi questo problema per la creazione di un futuro migliore a quelle che si susseguono. Non ebbi il tempo, il modo e l’opportunità di porre a me stesso la domanda, nè di fare lo stesso percorso.
Quel nostalgico decennio è cadenzato nella mia memoria in ben diversi capitoli, caratterizzati da ben più diversi e problematici eventi personali. Su questo contrasto intendo costruire questi miei ricordi.
Un giovane del profondo Sud come me, in quegli anni confusi e tumultuosi del primo dopoguerra, aveva ben poche vie di fughe per evadere da quella antica Valle del Sarno abitata sin da prima della fondazione di Roma dalla misteriosa popolazione dei Sarrasti.
A parte la nota citazione di Virgilio nell’Eneide (VII, 738) che li indicò col nome di Sarrasti, si sa ben poco di questa tribù che la tradizione fa discendere dai Pelasgi i quali, nell’alta Età del Bronzo, migrarono dal Peloponneso e si insediarono in gran parte dell’Italia Meridionale.
Queste popolazioni si stabilirono anche nella Valle del Sarno e ribattezzarono il fiume “Sarno” o “Sarro” in memoria di un altro fiume, il “Saron”, che scorreva nella madre patria da cui essi erano emigrati.
Dalle ricostruzioni fatte in base ai reperti ritrovati nell’area, i Sarrasti erano un popolo operoso, ricco e forte, rispettoso dei deboli e degli anziani. Ma questa è soltanto letteratura speculativa.
Si disperde nella notte dei tempi, lasciando traccia oggi di un territorio diventato non altro che uno sterminato “hinterland” napoletano che si distende ai piedi del vulcano Vesevo al quale ben si assegna il nome di “sterminator”.
Evadere da un ambiente del genere, se si conosce la realtà del tempo, era del tutto impossibile. Mia madre proveniva da una diversa realtà, un’altra valle, forse ancora più chiusa e diversa da quella in cui l’aveva portata a vivere suo marito.
Il “genius loci” in questi casi la fa da padrone, condizionatore, creatore di destini ai quali, chi ha la sventura di capitarci, raramente riescono a sfuggire.
Un luogo tanto antico, quanto preistorico, non poteva non essere legato e condizionato ad una classicità perduta e mai veramente posseduta. Tutto l’insegnamento scolastico di quegli anni postbellici, fine anni cinquanta, inizi anni sessanta, non potevano sfuggire a quel tipo di educazione ed istruzione che ha sempre confuso i due indirizzi e le relative realtà.
Si preferiva istruire piuttosto che educare, la classicità doveva prevalere ignorando del tutto la modernità. Quando decisi di studiare le lingue moderne, dopo che mi avevano fatto odiare abbondantemente il latino e il greco, e dopo di avere subito diversi fallimenti e delusioni, emigrai in Germania per apprendere la lingua.
Il tedesco era una delle tre previste dal piano di studio. Mi ritrovai studente lavoratore a Stuttgart,facchino e giardiniere tra la Mercedes Benz e la Porsche.
Conobbi magliari e pizzaioli, venditori di tappeti e di canzoni, scoprii il sesso e discussi di nazismo, imparai a dormire sul nudo pavimento, ma venni annientato da quella realtà alla quale sentivo di non appartenere.
Poco meno di un anno mi bastò per comprendere che “quando il tedesco che sa scrivere bene si tuffa in una frase, non lo vedi più finché non emerge dall’altra parte del suo Atlantico con il verbo in bocca.”
Chi ha imparato il tedesco sa cosa vuol dire questa immagine ironica usata da quella malalingua che fu lo scrittore americano Mark Twain (1835–1910).
“La lingua tedesca è una dozzina di frammenti di parole gettati in un cilindro ottagonale, guardateli bene prima di iniziare a girare la macchina, perché non li vedrete mai più nella loro semplicità, mai più. Una persona dotata dovrebbe imparare l’inglese (tranne l’ortografia e la pronuncia) in trenta ore, il francese in trenta giorni e il tedesco in trent’anni.”
Ritornai a casa, era la fine del 1960 e fu anche la fine del mio sogno di imparare una lingua che solo Mark Twain, un americano di lingua inglese, mi avrebbe poi aiutato a comprendere quanto fosse difficile imparare.
Non mi diedi per vinto e l’anno dopo partii per la mitica Albione accettando l’invito di una signora amalfitana, naturalizzata inglese, che conosceva la famiglia di mia madre nella Valle di Tramonti.
Ci impiegai 45 ore per arrivare in una fredda e nebbiosa notte di novembre del 1961 ad arrivare a Victoria Station. Alfred mi venne incontro e conobbi Britannia.
Tre settimane di permesso di ingresso e mi titrovai a lavorare per due anni e più in un luogo che non mi sarei mai aspettato di conoscere. Un ospedale per deficienti mentali e fisici, studente infermiere.
Superai il “Preliminary Exam”, una borsa di studio pagata dal Ministero della Salute inglese mi permise di provare il brivido del primo volo in vacanza verso l’Italia.
Due anni e più mesi mi bastarono per capire le differenze tra la lingua di Goethe e quella Shakespeare. I Beatles, Mary Quant, Lady Chatterly fecero il resto.
Quando ritornai a casa, trovai mio Padre senza lavoro e la gloriosa tipografia di famiglia aveva definitivamente concluso il suo ciclo vitale.
Il ritorno agli studi fu molto duro, la Patria mi chiamava al servizio e con cinque mesi di corso divenni allievo ufficiale artigliere alla SAUSA di Foligno, poi sergente, poi S.Tenente.
Quando ritornai nella aule universitarie dell’I. U.O. mi scontrai con le metafore del Libretto Rosso di Mao e compresi cosa volesse dire “cedere un poco significa, cedere molto”. La violenza era in arrivo. Anzi era arrivata.
Nessuno si curava di dare una risposta alla domanda che aveva posto John Kennedy. Il resto è stato tutto già raccontato e l’abbiamo vissuto in diretta. Questo fu Il mio fatidico decennio degli anni sessanta. Quando fui giovane anche io.