L’inconscio che parlava romanesco
7 SETTEMBRE 1791 nasce Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli. Nei suoi 2279 Sonetti romaneschi, composti in vernacolo romanesco, raccolse la voce del popolo della Roma del XIX secolo.
L’inconscio parla romanesco. Quello di Gioachino Belli sembra proprio un caso di doppia personalità. Si «sistema» a 25 anni impalmando una vedova benestante di una decina d’anni più anziana di lui, svolge modesti lavori impiegatizi e si dedica alla poesia e alla letteratura. La morte della moglie ne incupisce il carattere, rendendolo «malinconico e irritabile».
I moti del 1848 lo sconvolgono, spingendolo su posizioni reazionarie, tanto che, nominato censore, esercita la carica con sommo zelo, fiutando ovunque idee sovversive e giungendo a condannare le tragedie di William Shakespeare e i melodrammi di Rossini e Verdi. La sua produzione letteraria in lingua è all’insegna della tradizione arcadica e del conformismo, ma accanto a questa produce più di duemila sonetti in dialetto romanesco, quasi tutti inediti, un grandioso «monumento» alla plebe di Roma, vista con gli occhi e il realismo di chi a quella plebe appartiene.
Un miracolo. Belli diventa un altro, smette i panni del papalino reazionario, per ritrarre con spirito satirico e crudo realismo una società in disfacimento sociale e morale e un mondo popolare miserabile e vitale, sanguigno e spietato, per arrivare a riflettere sulla stessa condizione umana.
È come una protesta che sale dal profondo, un impeto di ribellione spontaneo, istintivo e incontrollato. La produzione dialettale avrebbe dovuto rimanere segreta: nel testamento lascia infatti scritto di bruciare le sue carte. Fortunatamente non avvenne. (Almamatto)
L’anno che Gesucristo impastò er monno,
Ché pe impastallo già c’era la pasta,
Verde lo vorze fà, grosso e ritonno,
All’uso d’un cocommero de tasta.Fece un zole, una luna e un mappamonno,
Ma de le stelle poi dì una catasta:
Su ucelli, bestie immezzo, e pesci in fonno:
Piantò le piante, e doppo disse: “Abbasta”.Me scordavo de dì che creò l’omo,
E coll’omo la donna, Adamo e Eva;
E je proibbì de nun toccaje un pomo.Ma appena che a maggnà l’ebbe viduti,
Strillò per dio con quanta voce aveva:
“Ommini da vienì, sete futtuti”— — -
La creazione del mondo
L’anno in cui Gesù Cristo impastò il mondo,
che per impastarlo c’era già la pasta,
lo volle fare verde, grosso e rotondo
come un cocomero da assaggiare.
Fece un sole, una luna, e un mappamondo,
ma di stelle, poi, ne fece una catasta:
sopra gli uccelli, le bestie in mezzo, e i pesci in fondo:
piantò le piante, e dopo disse: Basta.
Mi scordavo di dire che creò l’uomo,
e con l’uomo la donna, Adamo ed Eva;
e proibì loro di toccare una mela.
Ma non appena li ebbe visti mangiare,
strillò «per Dio!» con quanta voce aveva:
«Uomini a venire, siete fottuti!».— — — -
The year Jesus Christ kneaded the world,
The stuff for doing so was already there,
He wanted it to be green, big and round,
Like a ripe water-melon.He made a sun, a moon and a globe,
And a real multitude of stars:
Birds up, animals midway, and fishes at the bottom:
He planted plants, and then said: “That’s enough”.I forgot to say that he created man,
And, with man, woman too, Adam and Eve;
And he forbade them to touch a fruit.But as soon as he saw them eating,
By God, he shouted as loud as he could:
“People to come, you’re in trouble”.
Questa trascrizione popolaresca della creazione del mondo è uno dei primi sonetti di Belli. Venne composto a Terni il 4 ottobre 1831 e dà avvio al filone dei sonetti sugli episodi della Bibbia. La creazione del mondo è descritta con tono favolistico e satirico, come il tiro mancino di un Creatore spinto dalla vendetta.
La prima quartina fa riferimento a due metafore alimentari: pasta e cocomero. Inoltre nei primi due versi Belli utilizza gli errori teologici popolari dove non Dio ma Gesù è l’autore dell’universo che non viene creato dal nulla ma “impastato” da una materia informe, che già era pronta (già c’era la pasta), non creata dunque.
La seconda quartina mostra un Dio giardiniere, all’apparenza benevolo, ma che nell’ultima terzina sentenzia con maligna soddisfazione l’inutilità dello sviluppo futuro del genere umano (l’effetto comico-paradossale è reso attraverso l’immagine di un Dio che, fortemente irritato si lascia andare a gridare con un gran vocione).
Nella Bibbia belliana Dio è un tiranno e persecutore, un Dio che sta sempre dalla parte dei potenti e che manifesta il suo potere con divieti incomprensibili e punizioni eterne, angariando i comuni mortali condannandoli all’immutabilità di una condizione umana misera, ad una vita d’inferno che non cambierà neppure dopo la morte perché proseguirà con l’inferno dell’al di là.
A differenza dei racconti Biblici per Belli gli uomini non hanno nessuna possibilità di redenzione e di riscatto, come declamato da Dio stesso in conclusione del sonetto. Non c’è nessuna speranza di redenzione perché chi dovrebbe operarla è un popolo inetto e spregevole tanto quanto chi lo comanda.
Emerge quindi il radicale pessimismo di Giuseppe Gioacchino Belli che assume sfumature nihiliste.
Sonetto, composto da due quartine e due terzine, a schema ABAB, ABAB, CDC, EDE. (Parafrasando.it)