Le strade “perdute” e quelle che abbiamo “dentro” …
Non sono nato a Sarno, ma posso considerarmi sarnese, perché da mio padre e dalla sua numerosa famiglia ho ereditato la “sarnesità”. Quando si parla di comunicazione non bisogna fidarsi troppo della memoria. Quasi sempre è offuscata dalla nostalgia per i tempi andati. Per questa ragione non amo gli “amarcord”. Ma questo post non lo è. Vuole essere ben altro.
Quello che abbiamo alle spalle e quello che abbiamo davanti sono piccole cose, se paragonate a ciò che abbiamo “dentro”. Anche se il “non-detto” supera sempre quello che “si può dire”, ho deciso di fare una “mappazione” personale della mia memoria di questi luoghi dove ho vissuto, forse, un tempo “perduto”, ma con pochi rimpianti.
Volendo farlo per le ragioni che scoprirete, non posso non partire che dal centro del paese. Per “centro” intendo proprio il centro della città. Luogo storico dello spazio e della mente: Piazza Municipio. Un posto che è la somma di più luoghi, con memorie diverse.
Non vi sono nato, l’ho detto, ma è come se fossi sempre appartenuto a quello spazio, spostandomi tra via Fabricatore, piazza Municipio, per poi scendere per via De Liguori. In queste poche centinaia di metri, segnati dai tre citati punti di riferimento, cardini della memoria di “dentro”, si distendono altri luoghi che arricchiscono i miei ricordi.
Dai piedi del monumento a Mariano Abignente c’è una “via di fuga”, per così dire, verso il corso principale. I tre punti ai quali faccio riferimento personale portano un numero: via Fabbricatore 14 — Piazza Municipio 5 — via De Liguori 55
Su questo percorso stradale rettilineo si innesta il Rettifilo, a forma di T. Questa lunga e storica strada porta altrove, facendo allungare la memoria fin giù all’incrocio dove la città di oggi ha disteso le sue lunghe braccia in maniera imprevedibile ai tempi di cui mi accingo a parlare. Alla fine degli anni quaranta, i confini del centro erano altri.
Era difficile andare oltre quel grande l’edificio scolastico, così carico di storia, che va sotto il nome di De Amicis. I vari rami sotterranei del fiume attraversavano l’area e confluivano nello stesso stesso fiume. Questo stava li’ a segnarne quasi il confine, anche in maniera non visibile.
Da piccolo, una decina di anni, mi vietavano di andare in quella zona che era chiamata “arreta ‘o ponte”, (dopo il ponte), specialmente di sera, luogo dove si potevano fare brutti incontri. Così dicevano. Ricordo vagamente che il fiume passava sotto il basolato del Rettifilo, scorrendo trasversalmente a quello che era il grande spazio libero usato come campo sportivo, dove l’erba non sarebbe mai attecchita. C’era un lavatoio con un piccolo rivo che lambiva l’antico Caffè all’angolo della piazza all’incrocio.
Ricordo anche alcune fasi dei lavori quando venne costruito il terzo piano sulla scuola De Amicis. Le grandi uscite d’acqua, l’enorme quantità di pali gettati alla sua base per permettere la costruzione, la difficoltà di dare solide fondamenta alla struttura. Oggi, proprio questo terzo piano, non esiste più. Di fianco ad esso, nel corso del tempo, hanno eretto un nuovo edificio chiamato “Teatro”. Da molti, allora, considerato un “intruso”.
Io ed altri giovani amici del tempo, “dinosauri” oggi, che scrivevamo su un giornale intitolato “L’ORA del Mezzogiorno”, una piccola voce fuori dal coro del tempo, non riuscimmo a bloccare i lavori. Anche quel genio folle di Vittorio Sgarbi, quando venne a Sarno, disse che quella costruzione era un “mostro”.
Era il tempo in cui i partiti politici locali potevano avere per simbolo una “cinque lire”. Oggi ci sono le “cinque stelle”. Ma la musica politica è la stessa. Miseria e nobiltà, di ieri come di oggi.
Se questa è, grosso modo, la geografia orizzontale della mia memoria, dovrei ora identificare gli spazi e visitare i vuoti a quei numeri ai quali ho fatto riferimento prima, cominciando un viaggio non solo in maniera orizzontale ma verticale e digitale. Vedremo poi come:
- Al numero 14 di via Fabbricatore ci abitavo io, con la mia famiglia.
- Al numero 5, in piazza, c’era la tipografia “Arti Grafiche M. Gallo & Figli”.
- Al numero 55 di via Liguori c’era la casa della famiglia di mio padre.
Tre strade che sono come dei contenitori nei quali i ricordi trovano una gelosa ospitalità che non è soltanto mia personale, ma anche comune a tanti altri concittadini che in questi luoghi vivevano. Durante questo viaggio nella memoria aprirò delle finestre virtuali, facendo riferimento ad alcuni post-articoli che ho scritto in Rete. Sono come link attivi sulla versione online di questa mia memoria che soltanto alla fine avrà una sua giustificazione.
Chi non ricorda in via Fabricatore alcune presenze del tempo che hanno fatto la storia della città? Il negozio di Giona l’armiere che esponeva lucidi fucili da caccia nel suo piccolo negozio proprio all’inizio della strada. Di fronte, il misterioso orefice “don Carlino”, di fianco la famosa “pasticceria Angora”, altrimenti nota col nome biblico di “Assalonne”, poi lo studio medico del dottore Fabricatore, il fotografo D’Alessio in concorrenza con quello più avanti in via Laudisio, Tambone.
E ancora, il negozio di “Giulia ‘a Rossa”, la tipografia Scala, la libreria di Eduardo Scala, il fornaio “Tore ‘o Nero”, il negozio della “Stagione”, via via arrivando alla Farmacia Tura, dove ritrovo il ricordo della mia severa maestra elementare, sempre vestita di nero. Li ricordo tutti, specialmente l’edicola Oletto, un tempo di “Giritiello & Giulina”.
Il ricordo del negozio di Giona Squitieri mi offre la possibilità di aprire un’altra finestra dalla quale si affaccia una figura di un importante uomo politico sarnese. Il prof. Domenico Musco, un vero e proprio pezzo di storia del nostro Paese. Anche io faccio parte della sua memoria, come credo ne faccia parte lui e la sua famiglia. Piazza Municipio io la ricordo come l’ombelico del mondo, una “Piccadilly Circus” della memoria sarnese dove ritrovo un po’ di tutto.
Musica, politica, arte, religione, il sacro e il profano si confrontavano, mescolandosi, trasformandosi, diventando “altro”. Gli altoparlanti ai piedi di Mariano Abignente che risuonavano della melodia delle “bandiere rosse”, lasciando l’uomo di ferro del monumento sempre impassibile. A questo frastuono rispondeva il frenetico suono delle campane della Chiesa dei frati francescani sempre disponibili al confronto.
Ricordo “Il Circolo dell’Unione”, detto anche “dei signori”, un vero e proprio “covo” di rosicatori sociali. In quelle stanze si “cazzeggiava” come si fa oggi sui social. Si facevano e disfacevano partiti, alleanze e amministrazioni, si giocava e si parlava sia di cultura che di corna, sottovoce, con stile.
Il luogo ideale per discutere di tutto senza sapere niente. La gloriosa sezione dei combattenti, i grossi palchi illuminati per la festa di Ferragosto, le grandi sfide delle bande musicali e le loro fughe dal palco in pieno concerto durante lo scoppio del classico temporale ferragostano.
All’angolo della piazza, tra via Fabricatore e il Rettifilo, c’era l’ufficio con il centralino della SIP. C’erano due signorine che ci lavoravano. Noi da ragazzini andavamo sempre a guardare curiosi, affacciandoci alla porta. Guardavamo con gli occhi aperti quella centralina alla quale quelle signorine parlavano con una cuffia in testa, infilando in un buco un filo che si chiamava “jack”.
Si alzava la cornetta del telefono, (beato chi ce l’aveva!), ti rispondeva la gentile voce femminile e ti chiedeva il numero con il quale volevi parlare. Lei inseriva il “jack” e ti apriva il collegamento. Si sapeva che con quella cuffia in testa le signorine potevano sapere tutto di tutti.
Un’anteprima delle intercettazioni di oggi! C’era poi la tipografia, in quel portone, di fianco al tabaccaio della “ ‘a Rossa”. Sul retro convergeva la bottega laboratorio di un’altra notabile pasticceria che si affacciava sulla piazza, quella di don Antonio Salerno.
Entrando in quel portone potevi sentire l’odore dei dolci in cottura, un profumo che si mescolava con il puzzo acre e penetrante dell’inchiostro della macchine che stampavano in continuazione messaggi di ogni genere, scritti da tutti i tipi umani, colti e ignoranti, buoni e cattivi, bianchi, rossi e neri.
Niente e tutto mi è rimasto della memoria cartacea di questa tipografia post-gutemberghiana. Impossibile ricordare o conservare tutto quello che è stato stampato per circa cinquanta anni. Una memoria la voglio qui ricordare. Avevo i calzoni corti quando mio padre mi mandava a portare le bozze ad un prete autore di un libro che voi tutti ricorderete e che è un “classico” della storiografia locale.
Mi riferisco a don Silvio Ruocco, antesignano di tutti i moderni storici locali. Sedicesimo per sedicesimo, percorrevo a piedi il viale Margherita, consegnando i fogli delle nuove bozze avendo cura di prendere le vecchie. Era un tipo mica tanto socievole quell’omone prete che incuteva soggezione solo a guardarlo. Lo ricordo quando, con il suo bastone, bussava alla vetrina della tipografia, quasi sfondandola.
Preannunciava il suo arrivo, gettando il panico tra i compositori. Era un grande pignolo. Ci vollero diversi anni per portare a termine l’opera. Chi possiede l’edizione originale dei volumi potrà rendersi conto di quanto siano forti le differenze di questa edizione con quella fatta poi dall’Editore Buonaiuto. Sulla piazza si affacciavano, e tuttora sono presenti, altri due “portoni” oltre quello della tipografia.
Nel primo, all’angolo del Rettifilo, dove c’era un negozio di ottica di Alfonso Liguori Rossi, c’era anche un locale dove per diversi anni andò in scena un “teatro dei pupi” molto amato e frequentato al tempo. Pupi a grandezza d’uomo, abilmente gestito da qualcuno di cui non ricordo il nome. Subito dopo c’era il “portone rosso” per eccellenza. Le scale interne portavano ad un appartamento dove viveva una famiglia che ha fatto del suo impegno politico un ideale di vita.
Mi sembra ancora di sentire le voci elettorali del tempo in cui la politica sapeva avere anche un valore ideale e morale. Un’altra “finestra” sulla piazza è il ricordo di quella che fu l’ultima libreria di Sarno degna di questo nome. Si chiamava romanticamente “Amore mio”. Proprio di fronte alla libreria c’è l’ingresso alla chiesa di San Francesco, memoria religiosa della città. Di fianco c’è il portone di entrata che conduce, dopo di avere attraversato il chiostro, alle stanze del convento che si snoda su due piani in continuità fisica con il vicino Municipio.
Il Convento merita un ricordo particolare per gran parte di noi “dinosauri” oggi, giovani di allora. Dagli anni del dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta, e’ stato un punto di riferimento, un contenitore anch’esso di valori morali ed ideali oltre che, ovviamente, religiosi. Faceva da contraltare, e’ il caso di dire, al “balcone rosso” di cui ho detto innanzi. Ricordo che in una di quelle stanze viveva qualcuno che mi introdusse allo studio della filosofia. Non era un monaco francescano, bensì un prete, che era ospite dei frati.
La sua era una piccola stanza, ripiena di libri. Quando mi faceva lezione ero affascinato da quello che diceva. Ricordo che capivo ben poco. Non mi interrogava mai, non mi faceva mai ripetere, non mi chiedeva mai se avessi capito. Era un monologo incontrollato. Ero capace di stare li seduto ad ascoltare per ore, il suo perfetto italiano. Accompagnava le sue parole con gesti della mano destra con la quale sembrava disegnare nell’aria il senso di quello che diceva.
Ho imparato da lui ad amare la filosofia, ma allora era difficile capirla. Ci voleva del tempo. Ci sarei riuscito prima se lui, che insegnava a Nocera, non fosse morto in un incidente stradale. Ogni mattina prendeva l’autobus. Quel giorno prese un passaggio con un camion. Segnò la sua fine terrena.
Potrei dire tante altre cose sul Convento di Piazza Municipio. Come non ricordare fra’ Masseo e la sua dispensa, fra Ciro e la sua cesta per la questua, padre Baldini e le sue zuppe di cipolla per dimagrire, padre Olimpio Cuomo e la sua associazione, padre Gerardo Rispoli, padre Raffaele Squitieri amici fraterni e tanti altri frati che si prendevano cura di noi in tutti i modi possibili?
Chi eravamo? Ci alternavamo nei mesi e negli studi o interessi. Ne ricordo alcuni, studenti o membri dell’Associazione Cattolica: Emilio Prisco, Aniello Agovino, Alessandro Salerno, Salvatore Monda, Enzino De Colibus, Andrea Ricupito, Battista Robustelli, Salvatore D’Angelo. Tutti a studiare nelle celle, a giocare a ping pong, a vedere i film in pellicola proiettati nel Cineforum del Chiostro. Un mondo scomparso, un mondo perduto e mai più ritrovato.
Scendendo verso via De Liguori, prima di arrivare al numero 55, i ricordi mi riportano ad altri luoghi e persone che concorrono a fermare il tempo. Chi non ricorda il negozio del vecchio Cerbone? Aveva spezie, dolci e caramelle di ogni specie. Poco distante, il farmacista Raiola distribuiva medicine a richiesta come da prescrizione con ricette su misura. Non c’era ancora la moderna farmacopea industriale. Qualcuno ricorda quella ricetta di “citrato e cremone” che mia madre mi mandava a comprare?
Lui la confezionava pazientemente, pesando le dosi delle polverine col bilancino. Non ricordo se era una ricetta per fare i dolci oppure una purga! Per quest’ultima c’era anche il sale inglese. Più in la’ c’erano le indimenticabili signorine La Guardia, gentili cucitrici, ricamatrici e lavoratrici a maglia, testimoni di un’epoca in cui il tempo scorreva sul filo dei ricami. Poi di fronte sulle scale, cosiddette di Pasqua, trovavi la casa della famiglia De Colibus, più giù quella dei De Liguori.
La signora Ginevra fu una cara amica di mia Madre. La famiglia De Liguori ci diede in fitto la casa quando ci trasferimmo, nel primo dopoguerra, da Pozzuoli a Sarno. Mio Padre aveva perduto il lavoro che aveva all’Ansaldo. Da collaudatore di cannoni, divenne un membro della famiglia delle “Arti Grafiche M. Gallo & Figli” in piazza Municipio.
Ricordo molto poco di quei giorni in quella casa a poca distanza da quellla di mio Padre, dove viveva Nonno Michele con la famiglia Gallo. Al numero 55, appunto, dove, per un gioco strano della vita, più tardi saremmo andati ad abitare. Ma al piano di sotto, non nella casa paterna. Quella della famiglia dei fratelli Gallo. Cinque maschi e due femmine.
Poco prima del numero 55, in un portone precedente, abitava la famiglia del dottore veterinario Alfonso Annunziata. Una delle poche persone nella mia vita che non dimenticherò mai. Una famiglia all’antica, integerrima e riservata. Alfonso era stato in America, ma questo grande Paese non gli era piaciuto. Aveva preferito ritornare in Italia.
Con lui trascorrevo lunghe ore a parlare di tutto, sopratutto della sua passione per la lingua e la letteratura inglese. Da lui imparai tanto e non ho mai dimenticato, io giovane sbarbatello, la sua grande sensibilità. Parlavamo mentre lui costruiva pazientemente navi e modellini in miniatura di tutti i tipi. Non l’ho mai più incontrato. Ricordo che nel suo palazzo, a sinistra delle scale, c’era una sorgente di acqua solfurea. Una delle tante misteriose presenze sotterranee del fiume Sarno.
Sotto la casa paterna, a livello di strada c’era, c’è ancora, una beccheria. I gestori di allora erano personaggi di un mondo scomparso. Oltre alla carne si vendeva anche il pesce, specialmente stoccafisso e baccalà. Tutto puzzava laggiù alle “quattro fontane” intorno a quel palazzo costruito su una delle sorgenti di un fiume tanto antico, quanto ricco di storia e di fauna ittica ormai vicina all’estinzione.
“Antonio e Idolella ‘a baccalaiola” ci consolavano nei pomeriggi d’estate con il giradischi ad alto volume, mentre Bobby Solo intonava per la centesima volta il suo ossessivo ritornello della canzone “una lacrima sul viso”. Di fronte c’era l’autorimessa di un altro personaggio storico sarnese “Ciccio ‘a Capocchia’.
Grandi battaglie e liti caratterizzavano quello spazio di strada che diventava un palcoscenico a cielo aperto, mentre io, affacciato alla finestra al primo piano dove abitava il Cavaliere Giuseppe Buchy, insieme alla mia prozia materna tramontina Maria, ci godevamo lo spettacolo.
E che spettacolo! Zia Maria era venuta a servizio del Cavaliere da Tramonti, in Costa d’Amalfi, non so per quali misteriose vie. Questo Cavaliere del Lavoro fu uno di quei personaggi della storia di Sarno che meriterebbe un discorso a parte. Fu zia Maria a propiziare, guarda caso, l’incontro e il matrimonio tra mia madre e mio padre, uno dei cinque baldi giovanotti Gallo che abitavano al piano di sopra.
C’era anche una sorella, Anna, grande ricamatrice, ma lei preferì emigrare negli anni venti negli Usa. Ritrovai il suo nome a Ellis Island, quando andai a New York qualche anno fa. Il suo sangue Gallo si trasfuse in Parziale, e questi sono sparsi in tutti gli USA. Ma questa e’ un’altra storia.
Nell’anno del Signore 1964 ero appena ritornato dalla ruggente Inghilterra dei Beatles e per uno dei quei misteriosi eventi che accadono nella nostra vita, da via Fabbricatore 14 ci eravamo trasferiti al numero 55 di via De Liguori, al primo piano, dalla prozia materna tramontina e il Cavaliere, proprio nel palazzo dove, al piano superiore, era vissuto nonno Michele con i suoi sette figli. La casa era finita ad un fratello di mio Padre con la sua famiglia: Domenico e Amalia, coi figli +Michele, +Rina, Anna Maria, Rosalia.
Ci viveva ormai da tempo tutta sola Anna Maria. Al suo ricordo ed alla sua gentilezza si fermano i miei ricordi. Li inseguo altrove, per altre strade, che raccontano altre storie. Questo post lo dedico a Lei, alla sua scomparsa. Anna Maria Gallo, mia cugina. E’ passata a miglior vita. Buon viaggio Anna!