L’altra “materia grigia”. Ovvero, il potere della merda
Molto intelligenti la copertina e il titolo di questo libro: “L’altra materia grigia. La scienza, il business e la capacità di trasformare i rifiuti in ricchezza e salute”. Una immagine che parla sè: un rotolo di carta igienica in uso, con il sottotitolo che chiarisce le intenzioni di chi ha deciso di parlare di un argomento la cui materia è “dark”, oscura come quella, anch’essa definita “oscura”, ma che si riferisce a quella del cervello. Un abbinamento solo in apparenza ardito.
Un libro ambizioso e documentato da studi scientifici, “The Other Dark Matter” (L’Altra Materia Grigia) dimostra come gli escrementi umani possano essere una risorsa salvavita e redditizia, se ne facciamo un uso migliore. La persona media produce circa duecento kg di escrementi all’anno. Quasi otto miliardi di persone vivono su questo pianeta. Lascio a voi immaginare la quantità di materia grigia che producono.
A causa delle malattie che questi escrementi possono diffondere, abbiamo imparato a prendere le distanze dai nostri rifiuti. La lunga serie di meraviglie ingegneristiche che abbiamo creato per farlo, dalle fognature romane, alle latrine medievali sino agli immensi impianti di trattamento computerizzati che utilizziamo oggi, però, ha anche arrecato danni considerevoli all’ecologia terrestre.
Ora gli scienziati ci dicono: stiamo sprecando i nostri rifiuti. Se riciclata correttamente, questa risorsa economica, costantemente disponibile, può essere convertita in una fonte di energia sostenibile, può fungere da fertilizzante organico, fornire una terapia medicinale efficace per l’infezione batterica resistente agli antibiotici e molto altro ancora.
Con una prosa chiara e coinvolgente che attinge alle sue ricerche e interviste approfondite, l’autrice del libro, Lina Zeldovich, documenta la massiccia ridistribuzione dei nutrienti e delle disuguaglianze igienico-sanitarie in tutto il mondo. Descrive i pionieri del riciclaggio della cacca, dalle startup nei villaggi africani, agli innovatori nelle città americane che convertono le acque reflue in fertilizzanti, biogas, petrolio greggio e persino medicine salvavita.
Lo studio rompe i tabù sullo smaltimento delle acque reflue e mostra come il riutilizzo igienico dei rifiuti può aiutare a combattere il cambiamento climatico, ridurre le piogge acide ed eliminare le fioriture algali tossiche. Alla fine, ci implora di usare il nostro potere organico innato per un bene superiore.
Ci invita a non limitarci a sedere sul vaso per farla e lasciare il tutto sprecato. La materia di cui si parla ha un vero e proprio “potere”: Il potere della merda. I nostri escrementi sono una risorsa naturale, rinnovabile e sostenibile, se solo potessimo superare il nostro disgusto viscerale nei suoi confronti. Ho letto un estratto del libro e diverse recensioni del libro in inglese.
Mi sono ricordato di quando ero un ragazzino, da una decina di anni in poi, trascorrevo le estati con mia Nonna, in un minuscolo villaggio in Costa d’Amalfi. Più di settanta anni fa, un tempo relativamente breve, ma molto denso di mutamenti imprevisti ed imprevedibili. Questo libro mi ha offerto l’occasione per un sentimentale amarcord.
Un villaggio di poche case. La nostra era su due piani. Tipica casa di campagna con stanze a volte con tele e dipinti, tetto dammuso. Al piano terra c’erano la stalla con la capra, la cantinola e uno stanzone sempre pieno di qualcosa. A poca distanza, in un ampio spiazzo di terreno isolato, un piccolo porcile con maialino solitario. In quello stanzone poteva esserci di tutto, a seconda della stagione. Mele o patate, pannocchie di granturco o verdure, fagioli o cavoli. I terreni circostanti, le cosi dette “piazze”, si distendevano tutt’intorno ed erano quanto mai fertili.
Da aprile in poi, fino all’autunno, i raccolti si susseguivano senza interruzioni. L’aia era sempre piena di fasci di granturco da “scugnare” a colpi di una mazza pieghevole battuta sulle pannocchie per sgusciare il granone. Uva bianca e nera, pesche, albicocche, prugne, mele, limoni, amarene e ciliege, gli indimenticabili fichi, bianchi e neri. Da seccare durante l’estate, sul tetto a palla. Mille delizie, con tanto lavoro.
Bisognava tenere la fonte sotto l’aia sempre piena per alimentare i canali che portavano acqua alle “piazze” coltivate. Quando non veniva giù dal cielo, l’acqua la dovevamo tirare su dal pozzo. Acqua fresca, limpida, pulita, potabilissima. Il secchio che la portava su si chiamava il “cato”, grande e pesante, da riempire i “copelloni”, far scorrere l’acqua dalla fonte, nei canali ed irrigare.
Ma non sarebbe stato sufficiente a creare quelle delizie naturali che Madre Natura regalava con le fatiche che si facevano sin dalle prime luci dell’alba. C’era bisogno di qualcosa altro che avrebbe dato senso, sapore e gusto ai raccolti. Qualcosa che segnalava in maniera ciclica il processo creativo dal quale tutto nasce e si trasforma, ma nulla si distrugge.
Sul retro della casa, nella stanza di ingresso, di fianco al grande focolare, c’era una porta che conduceva in una stanzetta: il bagno, anzi il “cesso”. Era soltanto un gradino sul quale c’era un buco sul quale si saliva e, alla maniera “turca”, ci si piegava sulle gambe a fare i propri bisogni. Il grosso buco raccoglieva quello che depositavi in un’ampia vasca che raccoglieva i liquidi.
Sul retro la vasca era protetta da una specie di porta che veniva chiusa per bloccare la fuoriuscita dei cattivi odori. Quando avveniva lo svuotamento sentivi il suono della ricaduta della materia grigia che producevi impattare sul fondo della vasca ripiena di liquidi. La materia grigia, era materia che fermentava. Periodicamente la vasca veniva svuotata a colpi di secchi.
La materia grigia di natura umana veniva attentamente selezionata da quella del maiale e della capra che la Nonna accudiva come se fossero esseri umani. Con il colono differenziava la materia, all’occorrenza decideva come usarla, per quale coltivazione, diluendola o mescolandola opportunamente, a seconda dell’esperienza fatta in precedenza. Nè più nè meno quello che anche l’autrice dei libro descrive nel suo libro.
Quando ritorno con il pensiero a questo mio tempo passato in quello che resta oggi di quella casa e di quel piccolo villaggio, non ritrovo nulla di tutto ciò che ho cercato di descrivere così come lo vissi nelle stagioni della mia infanzia. Mi ritrovo in un deserto, un luogo dal quale tutti sembrano essere scappati, verso un altrove che non so se lo hanno trovato. Le ragioni di questo deserto non rientrano in questo discorso che riguarda la “materia grigia”.
O forse sì, se penso che con così tanta moderna tecnologia intelligente abbiamo creato una sorta di spaccatura metabolica non solo materiale ma anche mentale. Dobbiamo riparare questa enorme frattura nella quale c’entra anche l’ideologia escrementale. A differenza delle persone nelle società antiche, pensiamo ancora ai nostri escrementi come all’ultimo prodotto di scarto che deve essere affrontato. Continuiamo a non vederlo come un bene estremamente prezioso e versatile.
Spendiamo i nostri sforzi e denaro per rimuovere la sporcizia pericolosa piuttosto che per acquisire e utilizzare un prodotto eccellente dei nostri corpi metabolici. E questo è il salto di pensiero che dobbiamo realizzare, come società del 21° secolo, per risolvere completamente il problema. Dobbiamo destigmatizzare la nostra materia oscura.
Dobbiamo considerarla una risorsa naturale, completamente rinnovabile e sostenibile, e lodarci come suoi potenti produttori, proprio come facevano le società più parsimoniose prima di noi. Dobbiamo renderci conto che la cacca fa buoni affari e che ci sono soldi da fare di merda.
Le feci sono l’ultima frontiera che si frappone tra noi e l’agricoltura circolare, l’economia sostenibile e il corretto reintegro dei nutrienti. Quando uomini d’affari e imprenditori litigheranno ancora una volta su chi può mettere le mani sul prodotto interno lordo più antico dell’umanità, sapremo per certo di aver chiuso la nostra spaccatura metabolica.
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