La “storia” di una edicola nella scatola dei ricordi
Questa fotografia non è la semplice immagine di una edicola che si autodefinisce “storica”. Chi sa “leggere”, in una fotografia, riconosce i luoghi, le persone e le memorie, e ha la possibilità di fare un viaggio nel passato, mentre osserva i cambiamenti del presente. Non è la prima volta che mi occupo di questo argomento.
Mi piace leggere il presente rintracciando il passato filo della memoria, la mia, per giustificare proprio quel termine, “storica”, che caratterizza il tutto. Non è la grande storia, quella con la lettera maiuscola, ma è proprio questo il caso: la piccola storia, fa la grande Storia. Quando ho scattato questa immagine non mi sono reso conto di quello che stavo facendo.
Volevo soltanto fermare un momento di vita, quando ogni mattina vado all’edicola di Angela, la moderna titolare della famiglia Oletto, figlia del mitico Nino, nipote degli altrettanto mitici “ ‘Ngiulina e Giritiello”, per la mia quotidiana porzione di informazione cartacea. Attraverso questa immagine posso ora fare una lettura più approfondita del significato di questa parola.
Sullo sfondo della foto si osserva la collina del Saretto ai piedi della quale si distende la Città di Sarno, nella antica Valle dei Sarrasti, con le radici nelle sorgenti del suo antico fiume. In cima ad essa sono ben visibili i resti di quello che fu il Castello di Sarno, la lunga storia di una fortezza che ebbe termine nel secolo XVII, oggi ridotta a ruderi irriconoscibili, fusi e confusi in una vegetazione montana che periodicamente cede alle forze della natura e alle malefatte degli uomini.
Se non è “storia” questa, cosa dire poi della storia di quel cognome? Oletto. Per me è come viaggiare nel tempo e nello spazio, facendo diventare i ricordi un continuo presente. Il pensiero mi porta subito in Via Fabricatore prima, e all’angolo della Piazza Municipio poi, dove tutto ebbe inizio oltre settanta anni fa. Quel giorno in cui tutto ebbe inizio, come se fosse oggi. Vivevo con la mia famiglia in quella strada al numero 14.
Sotto quel portone, una mattina di fine anni quaranta, apparve una sedia sulla quale erano poggiati poche copie di alcuni quotidiani: “Il Mattino”, “Il Roma”, “Il Giornale”. Ce n’era anche uno in particolare che si sarebbe estinto di lì a poco. Lo ricordo bene, perché l’indimenticabile “fondatore” dell’edicola, il mitico “Giritiello”, girava con la sua bicicletta per il paese urlando a gran voce, come solo lui sapeva fare : “ ‘O Risorgimentooo!”.
Il portone era segnato da un arco di piperno. Oggi è ancora così, quasi come un tunnel che, dopo una ventina di metri, si apriva al cielo e discendeva verso il centro, il cortile. Su questo si distendevano numerose rampe di scale a cerchio che portavano su verso i piani alti, tra balconi e finestre. Sembrava che tutti avessero un occhio, una finestra, un osservatorio su quello spazio che per noi ragazzi sembrava enorme.
Tutto da scoprire, con tante porte, stanze note e stanze segrete, alcune oscure, altre abitate da grossi animali dalla lunga coda che, di tanto in tanto, apparivano e scomparivano dal sottosuolo. Chi entrava in questo portone, dopo avere attraversato l’ampio cortile, poteva continuare il suo cammino inoltrandosi in uno stretto vicolo largo non più di un paio di metri. Tra due muri, il vicoletto portava, ancora oggi conduce verso la parte bassa del paese, là dove un tempo si svolgeva il mercato.
Tutto mi resta fotografato nella mente. Quando ti inoltravi in quel portone, proprio al suo limitare, trovavi una bancarella, una bancarella con delle sedie, sulle quali potevi vedere allineati, fermati da tante mollette usate per mettere ad asciugare il bucato, bene in mostra, giornali, giornalini e giornaletti di vario tipo. Una vita sotto quel portone, al freddo d’inverno, quando in quella specie di tunnel si infilava il famoso vento cittadino. D’estate diventava un forno che soltanto la fresca acqua della fontana pubblica in strada all’angolo riusciva ad alleviare.
A distanza di tanti anni, come in una videoclip, saprei descrivere chi in quel cortile ci viveva, ci lavorava, ci abitava. Noi ci giocavamo, ci conoscevamo tutti. Rampe di scale una dietro l’altra che portavano alle abitazioni al primo, al secondo ed anche al terzo piano, tra un susseguirsi di cortili e cortiletti interni. Una, due, tre, quattro rampe, verso quelli che, più che stanze abitate, sembravano dei covi che soltanto d’estate, quando il sole picchiava forte, costringeva chi ci abitava ad aprirle per farci entrare la luce.
Vendere giornali in quegli anni non era una cosa facile. Gli Oletto erano molto mattinieri. Sei o sette figli da sfamare. Le liti non mancavano mai. Quando A. si arrabbiava, dopo avere litigato con il marito e i figli, staccava dal muro il quadro di San Ciro che venerava molto, lo metteva faccia al muro e diceva rivolta al santo che sarebbe rimasto là fino a quando lui non avrebbe risolto il problema che affliggeva la famiglia.
A destra, scendendo verso il cortile, trovavi la porta posteriore dell’ “Antica pasticceria”. Il figlio aveva un nome antico, biblico, ed era un vero campione al gioco delle figurine dei giocatori Panini di cui facevamo la raccolta. Le bustine non mancavano mai sulla bancarella di ‘Ngiulina”. Assalonne era il più bravo, perché era capace, battendo il palmo della mano su una superficie di marmo, di fare “voltare” un mazzetto di figurine e vincerle facendole capovolgere con un colpo di vento. Un gioco tanto stupido quanto ingenuo.
Un profumo di pasticceria celestiale si levava dal laboratorio e si diffondeva per tutta l’area ogni qualvolta si infornavano torte e dolci. Il forno era collocato nel ventre del palazzo al piano terra di quell’agglomerato di costruzioni che costituiva una informe sequenza di abitazioni susseguitesi nel tempo, dando vita a spazi e luoghi, adibiti a stanze, abitazioni legate l’una all’altra, l’una sull’altra, in un groviglio difficile da descrivere.
Quei luoghi mi sono rimasti fermi nella memoria come in una fotografia. Nella quanto mai misteriosa rete fatta di muri e contromuri, piani inferiori e superiori, collegamenti interni ed esterni, la mia famiglia abitava ad un livello di terzo piano, verso l’interno. Avevamo il piccolo bagno in una sorta di monolocale quadrato su una loggia esterna all’appartamento. Eravamo direttamente interessati dal tubo di scarico del forno del pasticciere. Una fessura nel muro di fianco alla porta del bagno, mescolava i profumi del vaso e della pasticceria in una sorta di fragranza imprevista che nemmeno il più costoso Chanel avrebbe saputo elaborare.
Accanto al laboratorio di pasticceria vi trovavi il deposito del vetraio che vendeva anche altre cose per l’edilizia. In una stanza interna, quanto mai misteriosa, nella quale a noi ragazzi il burbero padrone non ci permetteva mai di entrare, si allineavano alcune bare che servivano da campione per chi ne avesse bisogno. Non molte, solo un paio. Le altre le si poteva visionare in un’altra stanza più grande, giù per il vicolo. Tutte in posizione verticale. Bianche, nere, marroni, grandi, qualcuna piccola.
Uno spettacolo indimenticabile. Noi sbirciavamo curiosi quando degli uomini venivano con il carrettino, ne caricavano una e la portavano in un altro portone. Nella stessa strada, in un altro grosso cortile, sostava un grande carro funebre, che poi sarebbe stato trainato da giganteschi cavalli neri per chi aveva deciso di fare il “grande viaggio”, come ci diceva quel vecchio che le vendeva sogghignando. Me lo ricordo quell’uomo che parlava ai suoi cavalli. Si chiamava Mariano. Era soprannominato “fieto ‘e cavallo”.
I nomi me li ricordo tutti. Io ero Nino. Poi c’erano Massimo, Mario, Mimmo, un altro Nino, Pino dal palazzo di fronte, Vincenzo e il biblico Assalonne. Non mancavano le femmine, ma queste non comparivano mai nei nostri giochi, tutti maschili. I nostri giochi erano economici, poveri, tanto poveri e così pochi che ne dovevamo inventare uno nuovo ogni mattina: “la guerra finta”, il carritiello, lo strummolo, il gioco dei corridori a tappe, “il palmo e il muro”, le figurine dei giocatori girate con il colpo di aria che fuoriusciva dal “cuoppo” del palmo della mano battuto sul banco, il pallone di gomma di pezza e di carta. ‘Ngiulina era sempre pronta a fornire bustine.
Tutto faceva spettacolo e casino. Specialmente la “guerra finta” e il pallone. Tanto casino che dall’alto ci piovevano addosso in ogni momento secchi di acqua versati da donna Nunzia che sbraitava sempre perché disturbavamo il figlio che stava a studiare per diventare medico. Ricordo che mio padre, per dirozzare il mio cervello di monello mi regalò una scatola di pezzi di legno, le così dette “costruzioni”. Pezzetti di legno variamente colorati e che io oggi identifico come antenati dei pezzi Lego.
Li mettevi l’uno sull’altro e davi forma a varie costruzioni. Gioco civile e senza dubbio più intelligente di quelli che facevamo. Ma ogni qualvolta li portavo nel cortile e cercavo di giocarci con gli altri, finivamo per usare i pezzi nelle sfide che ci lanciavamo. Li usavamo come proiettili per gli archi e le frecce che costruivamo per colpire gli avversari. Ecco perché quelle costruzioni non hanno avuto poi successo. Dovevano arrivare gli “incastri” per sfidare la creatività e capire, oggi, una volta per sempre, che la vita reale, come quella virtuale, è tutta un “incastro”.
Ecco, tutto questo leggo nella mia scatola dei ricordi quando ogni mattina vado all’edicola di Angela di oggi a prendere la mia razione quotidiana di informazione cartacea. Lei continua a venderli i giornali, i libri e i giochi, ancora cartacei, ma anche digitali. Piccole storie di una storica edicola. Grazie Angela!