La rabbia di scrivere: Robert Louis Stevenson
Se mi venisse rivolta una domanda sul migliore narratore in lingua inglese risponderei, senza nemmeno riflettere: Robert Louis Stevenson. Non sarebbe questa una risposta in senso critico del termine ma solo una predilezione personale. Certe preferenze si elaborano al di là di ogni senso critico e non hanno la pretesa di convincere nessuno. Si tratta soltanto di dare una risposta a se stessi.
La mia passione per lo scrittore scozzese risale a quando ero giovane, anzi un fanciullo, e lessi il famoso “L’Isola del Tesoro” dopo di avere letto però prima “Robinson Crusoe”. Non c’è una sola frase, un solo pensiero che in questo libro non abbia un valore morale. Una considerazione questa che, ai giorni nostri, non ha molta importanza, data la relatività di significato che ha assunto questo termine. Bisogna però tenere presente che Stevenson era cresciuto in un ambiente presbiteriano.
Un critico ha scritto in proposito che Stevenson aveva sentito parlare troppo del diavolo e del peccato. Nemmeno dopo aver letto e studiato autori come Montaigne, Heine, Huxley, Spencer, avrebbe potuto diradare le nebbie di quella religione dal suo cervello. Il problema principale che lo afflisse per tutta la vita, e in tutta la sua scrittura, era l’idea del “male”.
Questa presenza la si avverte non solo nell’ “Isola del Tesoro”, ma anche ne “Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde”, ne “Le nuove Mille e una Notte”, nei racconti polinesiani, ne “Il Naufragio”, “Il Riflusso della Marea”, “Il Signor di Ballantrae” fino all’incompiuto “Weir di Hermiston”.
Alla formazione di Stevenson contribuirono altri elementi familiari che compongono un quadro molto interessante. Suo nonno e suo padre erano costruttori di fari. Una professione non molto comune e abbastanza interessante. Fari costieri e fari d’alto mare, elevati sugli scogli che ad alta marea, finivano diversi metri sotto il livello di acque tempestose.
Il padre di Stevenson rimpianse per tutta la vita che suo figlio avesse “seguito i falsi e sterili sentieri della letteratura” e avesse preferito superare le sue notti insonni inventando e raccontando a se stesso interminabili storie di pirati e di briganti. Per giunta i racconti che gli propinava la sua governante Alison Cunningham, detta “Cummy”, lunghe narrazioni a base di pene infernali, drammoni inverosimili, trafugatori di cadaveri e spettri.
Non c’è da meravigliarsi, allora, se sottoposto a questo trattamento, Robert Louis, ancora prima di avere imparato a scrivere, cominciò a inventare delle storie che dettava alla madre e raccontava a se stesso tra veglia e sonno. Mentre dormiva, egli scrisse, poi, che era visitato da quelli che lui chiamava “piccoli personaggi” che gli suggerivano trame e scene per i suoi romanzi. Questi elementi sono facilmente riconoscibili durante la lettura dei suoi libri.
Egli ha scritto in uno dei suoi romanzi, facendolo dire ad un suo personaggio, che gli sarebbe piaciuto vivere in una storia. Aggiunse che lui si sentiva per sei decimi un artista e per gli altri quattro un avventuriero. Come tale corse per tutto il mondo in tutti i sensi, per terra e per mare. Immaginate se avesse potuto anche volare.
Attraversò più volte il Pacifico, passando per le isole Fiji e le Nuove Ebridi, dalle Tuamotè alle Gilbert, da Tahiti alle Hawai alle isole Samoa, dove finalmente nel 1889 calò l’ancora in modo definitivo e comprò per 4000 dollari venti ettari di foresta vergine che, col tempo, divennero il suo possedimento al riparo del più alto monte dell’isola, il monte Vaea, sulla cima del quale, alla sua morte, avvenuta all’età di 44 anni fu sepolto sotto il nome, datogli dagli indigeni, di Tusitala, un nome che ben gli si adatta e che significa “il narratore di belle storie”.
Quello che spingeva Robert Louis Stevenson a vagare per le vie del mondo era la sua fondamentale irrequietezza, e sopratutto l’illusione di riuscire a trovare un clima favorevole per i suoi poveri polmoni distrutti dalla tisi. Ecco cosa scrisse in una sua lettera a proposito della sua salute e del completamento di un suo libro:
“In quattordici anni non ho mai avuto un solo giorno di vera salute; mi sono svegliato che stavo male e sono andato a letto esausto; ho scritto a letto e fuori dal letto, ho scritto durante le emorragie, ho scritto quando stavo male, ho scritto tormentato dalla tosse, ho scritto quando la testa sembrava galleggiare per la debolezza e, per un tempo così lungo, ho l’impressione di avere vinta la mia sfida e ripreso il mio guanto”.
Se vinse fu perchè c’era in lui una vera rabbia di scrivere, di raccontare, di creare personaggi e di immaginare vicende in cui questi personaggi potessero agire. Quando non poteva scrivere dettava alla moglie servendosi dell’alfabeto dei sordomuti. Nonostante questo pazzo lavoro da cui nacquero opere rimaste immortali, pur riconosciuto come scrittore, un maestro, per vivere ebbe bisogno di aiuto dal padre e dalla madre.
I suoi guadagni dalla scrittura non furono mai sufficienti fino a quando non ebbe successo con il suo “Lo Strano Caso …”, all’età di 36 anni e gli restavano da vivere solo otto anni. Grande maestro di scrittura, Stevenson sembrava creare con grande spontaneità storie e personaggi dal suo oscuro caos personale per venire alla luce come i frutti si staccano dall’albero quando sono maturi.
Negli ultimi tre anni di vita a Samoa, non tenendo conto degli articoli per i giornali, egli scrisse otto volumi, cinque dei quali sono romanzi. Un raro esempio di quel sentimento che mi piace chiamare “la rabbia di scrivere”. Mentre io scrivo per capire quello che penso, Robert Louis Stevenson sapeva bene quello che aveva dentro …