La perduta arte della conversazione
Una foto che è tutta una conversazione. Alle spalle di Chiara, mia nipote, la straordinaria immagine di Santorini vista dal mare, mentre il veloce traghetto si allontana dall’isola incantata. Una conversazione in pixel che avrebbe fatto rimpiangere quella fatta di parole, ma che poi, col passare del tempo, sarebbe stata raccontata in forma di ricordo.
Negli ultimi anni, con l’avvento della tecnologia e dei mezzi di comunicazione digitali, la conversazione reale sembra essere diventata una specie in via di estinzione. Molti di noi passano gran parte della giornata a comunicare con gli altri attraverso i social media, i messaggi di testo, le e-mail, emoticon e altri graffiti vari, abituandosi a una forma di comunicazione emotiva, ma meno diretta e immediata. Di conseguenza, la conversazione reale sta diventando sempre più rara e preziosa.
La conversazione reale è un’arte che richiede un certo grado di abilità e di attenzione. È un modo di comunicare che permette di connetterci con gli altri in modo profondo e significativo, di esprimere i nostri pensieri e sentimenti in modo chiaro e di ascoltare gli altri con empatia e comprensione. Dal vivo, si suole dire.
Ci sono molti vantaggi nella conversazione reale. Innanzitutto, permette di stabilire una connessione più autentica con gli altri. Quando si parla di persona, si possono cogliere molti segnali non verbali, come l’espressione del viso, il tono della voce e il linguaggio del corpo, che aiutano a comprendere meglio ciò che l’altra persona sta dicendo e come si sente. Inoltre, la conversazione reale permette di creare un ambiente più intimo e accogliente, dove le persone possono sentirsi a proprio agio e parlare liberamente.
Albert Einstein, a suo tempo, disse che era fin troppo ovvio che “la tecnologia sta distruggendo la nostra umanità.” Evidentemente, non aveva ancora visto la condizione in cui ci troviamo oggi. Mi riferisco all’uso del cellulare, altrimenti detto smartphone, una vera e propria appendice del nostro corpo, inclusa la mente. Sarebbe stato interessante chiedergli cosa ne pensa di questo strumento che ha letteralmente cambiato il modo con il quale interagiamo socialmente.
Cosa accade quando diventiamo così dipendenti da questo strumento? Secondo alcuni esperti, quella che era un tempo considerata un’arte sta scomparendo. Mi riferisco a quell’arte che il grande saggista inglese Samuel Johnson, in un suo famoso saggio, chiamò “l’arte della conversazione”. Se finisce la conversazione, c’è il rischio che scompaia anche il tessuto sociale della comunità a cui apparteniamo.
C’è stato un momento in cui abbiamo pensato che tutta questa tecnologia potesse migliorare i nostri rapporti, le relazioni e le connessioni. Man mano, però, che questa stessa tecnologia diventa più sofisticata, avvolgente ed imprevedibile nei suoi impieghi, ci rendiamo conto che non è una rete che ci protegge e ci difende. Sembra, piuttosto, una realtà sempre più oppressiva sulla nostra esistenza, tanto da farci temere per la nostra introspezione e creatività e intimacy.
Se scompare la conversazione, le relazioni umane perdono quella empatia che si manifesta in maniera piuttosto fisica, come ad esempio il contatto degli occhi, del corpo, della presenza fisica. Perdiamo i toni della voce, i movimenti del suo corpo, il senso della presenza. Osservate un gruppo di persone che sta parlando e vi accorgerete che la conversazione si interrompe spesso per permettere a qualcuno di rispondere al cellulare. L’interazione cessa, gli argomenti si frammentano, i fili si spezzano, la qualità dei contatti si deteriora. Adddio empatia!
La medesima cosa accade quando ci si siede a tavola in un posto dedicato al cibo. Prima siede il cellulare e poi il suo padrone. Che cos’è, allora, che ci tiene “legati” e non “collegati” al cellulare? Anche se siamo con gli altri abbiamo forse paura di essere soli. Si può capire chi in un vagone della metro, in un bus, su di un treno, resta collegato attaccato al suo piccolo schermo, oppure, in tuta e connesso con gli auricolari, fa il suo footing mattutino ascoltando musica, le ultime notizie o conversa piacevolmente con la sua metà.
Abbiamo visto molte situazioni di pericolo vissute al cellulare e rilanciate in televisione. Molte vite sono continuamente salvate da questo gadget che è un prolungamento del nostro corpo, in grado di fare cose che il nostro stesso corpo non sa e non può fare. Si spiega così il fatto che ci spinge a non staccarci mai da lui. Eppure, dobbiamo trovare un modo per imparare a conviverci, un maniera razionale e ragionevole di usarlo. Non è possibile accettare l’idea che qualcuno possa essere falciato da un treno ad un passaggio a livello chiuso e non possa accorgersi del treno in arrivo.
Sì, è vero, il cellulare ci stimola, ci avverte, ci sollecita, non ci fa annoiare, ci tiene compagnia, ci intrattiene, ci guida e ci controlla. Uno studioso di comunicazione ha scritto in un suo libro che il cellulare, diversamente dal telefono fisso, ci offre la possibilità di risolvere qualsiasi problema in qualsiasi momento, condizione e situazione. Questa possibilità elimina situazioni forzate ed emotive. Bisogna però stare attenti a non delegare tutto allo strumento, in questo caso il cellulare, ma si può pensare a tutti gli altri media che usiamo.
Penso a chi, in cerca di gratificazione, riconoscimento o accettazione, posta su Facebook una foto e aspetta il riscontro in forma di “likes”. Il riconoscimento personale, il riscontro del suo narcisismo. E’ necessario conoscere lo strumento, non diventarne dipendenti, saperlo gestire per non essere gestiti. Bisogna creare spazi apposti dove il cellulare, ma anche gli altri media moderni, non devono entrare.
Non solo lo smartphone, quindi, ma anche la tv, la radio, il pc. E ricordare che esistono sempre due “bottoni”, come si chiamava una volta la “stanza dei bottoni”, due pulsanti. Oggi si chiamano “opzioni”: “on” e “off”. Non esiste una via di mezzo …