La maturità dei tempi: “Umanamente maturi, ma immaturi per la scuola”
Questo spazio digitale di MEDIUM, dove mi ritrovo ormai da anni, mi permette di fare diverse cose.
Esercitare la mente, registrare il tempo, costruire i ricordi, interpretare l’attualità, leggere il mondo, ricostruire il passato, ipotizzare il futuro, confrontarmi con me stesso, conoscere gli altri, esplorare nuovi orizzonti, incontrarmi con il mio alter ego.
È sempre la memoria a fare la storia, inventando, appunto, storie, con la verità dalle tante facce, i misteri, gli inganni, le scoperte. L’articolo che riproduco qui sotto mi ha riportato indietro nel tempo.
Leggetelo attentamente. E’ scritto da uno dei critici più originali della cultura contemporanea, un saggista e italianista con una profonda esperienza della poesia e del romanzo.
Poi riprendete la lettura di quello che è il mio modesto pensiero, proposto per l’occasione in tre tempi narrativi, per così dire, e per fatto personale. Vi avverto che il post è abbastanza lungo ed è svolto in tre momenti diversi.
L’articolo di Alfonso Berardinelli solleva una riflessione critica e necessaria sul ruolo dell’istruzione classica e sui metodi didattici utilizzati nell’insegnamento del greco e del latino.
Partendo dall’aneddoto della studentessa definita «umanamente matura ma scolasticamente immatura», l’autore mette in discussione l’efficacia di un approccio che privilegia l’aspetto tecnico-grammaticale a discapito di una connessione autentica con la cultura classica. La domanda centrale è: come può lo studio di lingue antiche, spesso ridotto a esercizi meccanici, contribuire alla maturità culturale e umana degli studenti?
La critica ai metodi tradizionali è condivisibile. Tradurre brevi brani decontestualizzati, senza esplorare il significato storico, filosofico o letterario delle opere, rischia di trasformare lo studio del greco e del latino in un mero allenamento mnemonico.
L’autore ha ragione nel sottolineare che l’interesse per queste discipline non può nascere dalla grammatica isolata, ma richiede un coinvolgimento emotivo e intellettuale con i testi. Leggere Omero o Seneca in traduzione, per coglierne la profondità e l’attualità, potrebbe essere un primo passo per avvicinare gli studenti a un patrimonio culturale che altrimenti rimane distante.
Altro punto cruciale è il ruolo degli insegnanti. Berardinelli invita a riflettere sulla passione e sulla curiosità dei docenti: se questi non coltivano un interesse vivo per le opere classiche al di fuori delle lezioni, come possono trasmetterlo agli studenti? La scuola necessita di educatori che sappiano coniugare rigore metodologico e capacità di comunicare il valore umanistico delle materie, mostrandone i legami con il presente.
Tuttavia, l’articolo lascia in sospeso una questione pratica: in un’epoca dominata dalle STEM (vedremo poi cosa sono) e dalle competenze tecnico-scientifiche, è realistico aspettarsi che gli adolescenti sviluppino un interesse spontaneo per il mondo antico?
Forse sarebbe utile ripensare i programmi, integrando moduli interdisciplinari che colleghino, ad esempio, la filosofia greca alle scienze moderne, o il diritto romano ai sistemi giuridici attuali.
Inoltre, l’uso di strumenti digitali (come edizioni commentate, podcast o ricostruzioni virtuali) potrebbe rendere più accessibile e coinvolgente lo studio delle lingue classiche.L’articolo stimola un dibattito fondamentale: l’istruzione umanistica non dovrebbe limitarsi a trasmettere nozioni, ma dovrebbe formare persone capaci di pensiero critico e sensibilità culturale.
Per farlo, serve un equilibrio tra competenza linguistica e apertura alla dimensione esistenziale dei classici, oltre a docenti disposti a rinnovarsi. Solo così lo studio del greco e del latino potrà essere non un relitto del passato, ma uno strumento di crescita umana e intellettuale.
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Ma cos’è STEM? è un acronimo che sta per Science, Technology, Engineering, and Mathematics (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). Questo termine di natura anglosassone è utilizzato per indicare un approccio interdisciplinare all’istruzione e alla formazione che integra queste quattro aree di studio, considerate fondamentali per lo sviluppo tecnologico, scientifico ed economico della società.
L’acronimo STEM è emerso negli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000, in risposta alla crescente domanda di competenze tecniche e scientifiche nel mercato del lavoro. L’obiettivo è promuovere l’innovazione e la competitività globale attraverso un’istruzione che combini teoria e pratica, incoraggiando il pensiero critico, la risoluzione dei problemi e la creatività.
Science (Scienza): Include materie come fisica, chimica, biologia e scienze della Terra, con un focus sulla comprensione dei fenomeni naturali. Technology (Tecnologia): Si concentra sull’applicazione pratica delle conoscenze scientifiche, come l’informatica, l’elettronica e le tecnologie digitali. Engineering (Ingegneria): Comprende la progettazione e la costruzione di sistemi, strutture e dispositivi, con un approccio basato sulla risoluzione di problemi tecnici. Mathematics (Matematica): Fornisce gli strumenti analitici e quantitativi necessari per modellare e risolvere problemi complessi.
Le discipline STEM sono alla base di molte delle tecnologie e scoperte che hanno trasformato il mondo moderno, dai computer alla medicina avanzata. I lavori in ambito STEM sono tra i più richiesti e ben retribuiti, con prospettive di crescita significative in settori come l’intelligenza artificiale, la robotica e le energie rinnovabili. Le competenze STEM sono cruciali per affrontare sfide globali come il cambiamento climatico, la gestione delle risorse e lo sviluppo di tecnologie sostenibili.
Molti paesi stanno investendo in programmi educativi STEM per preparare gli studenti a carriere in questi settori. Tutto questo include laboratori teorici, tecnici e pratici, esperimenti e progetti che incoraggiano l’apprendimento hands-on, coding e robotica, con introduzione alla programmazione e alla progettazione di sistemi automatizzati.
Vitale è la interdisciplinarità, con collegamenti tra scienza, tecnologia, ingegneria e matematica per risolvere problemi complessi. Recentemente, è emerso il concetto di STEAM, che aggiunge la A di Arts (Arte) alle discipline STEM. L’obiettivo è integrare creatività e design nel processo scientifico e tecnologico, riconoscendo l’importanza dell’arte e delle discipline umanistiche nell’innovazione.
Le STEM rappresentano un pilastro fondamentale per il progresso della società moderna, e la loro promozione è essenziale per preparare le nuove generazioni in un futuro sempre più tecnologico e interconnesso.
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Questo post si articola in diverse sezioni. Questa è la terza nella quale riprendo il discorso in maniera personalizzata come ho segnalato all’inizio. Innanzitutto, cerco di capire di cosa parla. L’articolo inizia con un aneddoto su una studentessa quindicenne che ha preso brutti voti in greco e latino.
La professoressa dice che è “umanamente matura ma scolasticamente immatura”. L’autore, Alfonso Berardinelli, riflette su questa affermazione e solleva questioni riguardo all’insegnamento delle lingue classiche, al metodo didattico e alla rilevanza dello studio del greco e latino oggi.
Anche io ero, ai miei tempi, in IV e V ginnasio “umanamente maturo, ma scolasticamente immaturo per la scuola”. Lo dissero a mio Padre. Anzi, gli dissero di più. La scuola non era fatta per me. Meglio se mi trovava un lavoro. L’indimenticabile prof di latino e greco dixit! Il bello è che, qualche anno dopo, identica sorte capitò alla buonanima di mio fratello. Anche lui dovette cambiare liceo.
Mi chiedo: qual è il punto centrale dell’articolo? Sembra che l’autore critichi il sistema scolastico per non riuscire a trasmettere una maturità culturale e personale attraverso lo studio delle lingue classiche.
Sottolinea che l’interesse per queste materie dovrebbe nascere da un coinvolgimento più ampio con la cultura classica, non solo dalla grammatica. Inoltre, mette in dubbio l’efficacia dei metodi tradizionali di insegnamento, come tradurre brevi brani senza contesto.
Devo ovviamente contestualizzare nel tempo questi accadimenti. Gli anni cinquanta del secolo e millennio trascorsi sono stati anni decisivi per la grande trasformazione sociale, economica e culturale che il nostro Bel Paese ha attraversato.
Una realtà storica e sociale, prevalentemente basata sull’agricoltura, si stava trasformando in industriale. Nello storico liceo intitolato a T. L. Caro nella antica Valle dei Sarrasti, il latino e il greco era uno status symbol per chi aveva la fortuna di frequentare quella scuola. Chi non poteva e chi non sapeva, aveva l’Istituto di Avviamento al lavoro. Così si chiamava.
Devo considerare anche la conclusione dell’articolo, dove si parla del ruolo degli insegnanti e della necessità che siano loro stessi appassionati e continuino ad apprendere. L’autore sostiene che la cultura dovrebbe portare a una maturità umana e al desiderio di definirla.
Ora, per commentare, dovrei esprimere la mia opinione su questi punti. Forse concordare con la critica ai metodi didattici obsoleti. Oppure discutere se lo studio del greco e latino sia ancora rilevante. Potrei anche riflettere sul bilanciamento tra competenze tecniche, la fatidica grammatica e l’apprezzamento culturale.
Devo fare attenzione a non essere troppo generico. Magari portare esempi o esperienze personali, se pertinenti. Inoltre, verificare se l’autore propone soluzioni o si limita a criticare. Sembra che suggerisca di integrare letture in traduzione e contestualizzare i testi per stimolare interesse.
Potrei anche considerare il contesto attuale dell’istruzione: con la tecnologia e le priorità educative moderne, come si colloca lo studio delle lingue classiche? È un dibattito comune in molti paesi. Infine, potrei assicurarmi che il commento sia strutturato: introduzione, punti principali, opinioni personali, conclusione. Evitare errori di comprensione del testo originale.
Non lo faccio, non so farlo, risparmio la fatica a me e a chi eventualmente fin qui mi ha letto. Dico soltanto che quei professori di quell’illustre scuola che allora, come ancora oggi, porta il nome di quel pazzo poeta e scrittore latino Tito Lucrezio Caro, non erano all’altezza del loro compito.
Oggi, a distanza di cinquanta e passa di anni, dopo di aver fatto il mio percorso di vita e di studi, lo posso dire, apertis verbis, è il caso di dire, non sapevano quello che facevano. E ne sono felice. Mi rendo conto che devo spiegarmi, altrimenti chi mi legge non capisce.
Non me ne meraviglio, visto che scrivo per capire quello che penso. Allora entriamo nel merito della “questione”, una parola che fa rima con “ricostruzione”. Mi riferisco al periodo in cui stavo per affrontare lo studio della lingua latina, perché il “contesto” vuole la sua parte.
Questo, lo si sa, è costituito dallo spazio e dal tempo. Lo spazio è quello di una cittadina meridionale, un sud non del tutto “profondo”, ma abbastanza. Abbastanza per dire che anche a Sarno, la mia città di adozione, dove la mia famiglia risiedeva, la parola era, appunto, “ricostruzione” dopo una guerra disastrosa.
Era come un brivido che percorreva la schiena del Paese Italia. Anche nelle mura del glorioso liceo-ginnasio che questo blogger si apprestava a frequentare in questa cittadina campana. Lui non lo sapeva, almeno non se ne rendeva conto. Me ne rendo conto oggi, a distanza di tanto tempo. Uscivamo da una guerra che vagamente ricordavo e c’era bisogno di “ricostruire”.
Dopo un triennio di scuola media, trascorso negli scantinati di quello stesso edificio, (le famigerate “cantinelle”), ero salito su quel “piano nobile” (che mi avrebbe ospitato più tardi in veste di docente di una lingua moderna), fu deciso che dovessi entrare nella “classicità”.
Un liceo-ginnasio intitolato, infatti, ad uno scrittore, tanto antico che era un “classico” di nome e di fatto: Tito Lucrezio Caro. Allora quel “signore”, con quel nome, mi era del tutto ignoto. Avrei saputo, poi, che:
“Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, sua manu se interfecit anno 44”
(“nasce il poeta T. Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro d’amore e aver scritto alcuni libri negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò all’età di quarantaquattro anni”). (@@@)
Mio Padre non lo sapeva. A lui interessava solo che io varcassi la soglia di quell’edificio costruito in perfetto stile fascista. Oggi quel terzo piano l’hanno abbattuto. Ci sono rimasti soltanto i fantasmi. Non per continuare quella ideologia, ma per un malinteso senso di “status” familiare e sociale.
Un sentimento ed una idea comune a molte famiglie del tempo, in parte ancora vive oggi: recuperare una gloria antica andata perduta, affermando una condizione personale e sociale inesistente. Il mito della classicità. Questi brevi accenni, tra il passato e il trapassato, mi servono per tessere i fili dei ricordi.
Ero uno dei tanti giovani dell’agro sarnese vesuviano, l’antica terra dei Sarrasti, che veniva dalla scuola media, fatta nelle “cantinelle” di quello stesso edificio, al di sotto del livello stradale, in compagnia di topi veri, occasionali compagni di banco e tanta provvisorietà.
Una comunità scolastica sarnese che si incamminava verso una indefinita e piuttosto problematica “ricostruzione”. Lo “status” familiare lo richiedeva. Chi aveva frequentato, invece, la vicina scuola, quella cosiddetta di “avviamento professionale”, non aveva altra scelta se non essere “avviato”, appunto, al mondo del lavoro, a fare una professione che non avrebbe avuto nessun contatto con la classicità.
Questo blogger, se allora stentava ad entrare nella “classicità”, non sapeva che sarebbe poi diventato prigioniero di un’altra lingua, diventata poi “il latino moderno”. La classicità era vista come la speranza per il futuro di un Paese che doveva essere ricostruito. Un impatto forte, non solo con il latino, ma anche con il greco.
Due lingue “morte” che non mi aiutavano affatto a capire cosa dovevo fare per imparare a come “ricostruire” una società, un paese, una comunità dopo i disastri di una guerra. Mio Padre era passato da un lavoro ad un altro. Da collaudatore di cannoni all’Ansaldo di Pozzuoli era diventato tipografo nella piccola azienda tipografica appena rilevata dopo la fine della guerra. Passaggi epocali …
A distanza di tanto tempo, i ricordi si sono sbiaditi e ho dovuto rileggermi la cronologia di quel tempo perduto. Quei fatidici primi anni cinquanta che mi videro a malavoglia, studente ginnasiale distratto e spaesato. Anni sofferti dentro, che mi fecero davvero dubitare delle mie facoltà, non solo scolastiche, a causa di un penoso disagio comunicativo, in una scuola che considerava i suoi alunni come tanti “vasi” da riempire.
Conoscenze astruse ed incomprensibili di due lingue che allora ritenevo “morte”. Tra grammatiche e sintassi, paradigmi e declinazioni, traduzioni e memorizzazioni, era come muoversi in un mondo inesistente, rincorsi da fantasmi, mentre fuori da quelle mura il mondo parlava di ben altro.
Gli anni 1950–1954: era il tempo in cui negli Usa si faceva la “caccia alle streghe” con la “crociata anticomunista” di McCarthy, i giorni di quando scoppiò la guerra in Corea. In Italia la caccia e la morte del bandito Giuliano, un segreto tutto italiano, nel quale, di sicuro ci fu soltanto il fatto che Giuliano morì. E poi l’alluvione nel Polesine, il primo festival di San Remo, la rivolta in Africa dei Mau Mau, la morte di Stalin, la “legge truffa” nel Parlamento italiano.
La realtà esterna alle aule di una scuola, un ginnasio di provincia meridionale, che rimaneva fermo nel tempo, ai miei occhi e di tanti altri miei compagni, una vita come congelata in una classicità che non aveva nulla di moderno e con la quale non si poteva ricostruire il futuro di una nazione ed di un popolo distrutti da una guerra esterna ed interna.
Così pensavo allora. Poi, con il tempo, e nonostante tutto, ho imparato che sia il latino che il greco sono due monumenti alla civiltà della parola umana e alla fede nelle possibilità del linguaggio. A che serve il latino? È la domanda che continuamente sentiamo rivolgerci e che anche io, sbarbatello alunno ignorante e svogliato, ginnasiale per forza, mi chiedevo.
La lingua di Cicerone altro non era che una ingombrante rovina, da eliminare dai programmi scolastici. Il caso, anzi il paradosso, uno dei tanti della nostra vita, ha voluto che lo imparassi dagli inglesi. Sì, perchè poi mi sono laureato in lingue moderne e specializzato in lingua e letteratura inglese.
Gli inglesi mi hanno fatto comprendere che il latino è, molto semplicemente, lo strumento espressivo che è servito, e continua a essere indispensabile, per fare di noi quelli che siamo. Ed io non sapevo quello che potevo essere.
“In latino, un pensatore rigoroso e tragicamente lucido come Lucrezio ha analizzato la materia del mondo; il poeta Properzio ha raccontato l’amore e il sentimento con una vertiginosa varietà di registri; Cesare ha affermato la capacità dell’uomo di modificare la realtà con la disciplina della ragione; in latino è stata composta un’opera come l’Eneide di Virgilio, senza la quale guarderemmo al mondo e alla nostra storia di uomini in modo diverso. Gardini ci trasmette un amore alimentato da una inesausta curiosità intellettuale, e ci incoraggia con affabilità a dialogare con una civiltà che non è mai terminata perché giunge fino a noi, e della quale siamo parte anche quando non lo sappiamo. Grazie a lui, anche senza alcuna conoscenza grammaticale potremo capire come questa lingua sia tuttora in grado di dare un senso alla nostra identità con la forza che solo le cose inutili sanno meravigliosamente esprimere.”
Tutto questo l’ho imparato a mie spese, soltanto dopo avere conosciuto un’altra lingua, moderna ed internazionale, la lingua di Shakespeare, il “latino moderno”. Paradossalmente potrei dire semplicemente che è stato il “latino moderno” a farmi conoscere il “latino antico”. Ho potuto così riconoscere le radici essenziali del nostro pensiero.
Radici lontane che risalgono a quando mia nonna, in anni lontani e agresti, qualche tempo prima che diventassi ginnasiale, mi costringeva a recitare, dopo una giornata di lavori nella campagna della Costa d’Amalfi, un interminabile rosario in latino. Le radici, appunto, di un albero quanto mai antico e ricco, perciò “classico”, formato da ramificazioni diverse ed impreviste.
Come per l’inglese, quale latino? Quello di Shakespeare o di Cicerone? di Wall Street o di Agostino? di Virgilio o di Virginia Woolf? della Bibbia di Re Giacomo o di Google? A chi ama conoscere e viaggiare sia nel mondo classico che in quello moderno la risposta.