La “finestra” mai aperta su un “cortile” sempre più chiuso. Ricordo di Gino De Filippo.
Una “finestra” che non è stata mai aperta. Sono passati oltre trenta anni da quando mi fu dato in prezioso dono questo dattiloscritto autografo che avevo dimenticato e che per un puro caso ho ritrovato. Era finito stranamente in una cartella dedicata alla “Education & Online Training”. Guarda caso, l’autore, che non amava i forestierismi e la lingua inglese in particolare, era una persona che fece della sua intera esistenza un problema di comunicazione. Un vero “artista” che, pur avendo soltanto la terza elementare, seppe comunicare in tutti i modi possibili. Un autodidatta nel senso pieno della parola, erede dell’antica tradizione etrusca osco-sarraste della Valle del Sarno.
Gino De Filippo: manovale, muratore, imbianchino, carpentiere, disegnatore, progettista, ma anche poeta, scrittore, pittore e sopratutto “mastro” della parola, delle sue radici: il dialetto. Un artista, di quelli veri, senza scuole, accademie o salotti, alunno estraneo e scomodo della scuola della vita. Un grande amico per oltre mezzo secolo. Continuo a sentire la sua mancanza, in un mondo che cambia in maniera vertiginosa. Lo scrive chiaramente in questa sua premessa ad un libro, una raccolta di poesie, che credo non vide mai la luce. Una finestra sul cortile, con il sottotitolo di “Foglie gialle, foglie morte”. Il suo “cortile” era il suo villaggio. Il suo villaggio era il suo mondo, un mondo che non lo avrebbe mai potuto e saputo comprendere, nè accettare. Un villaggio, una frazione, un paese, una città che non lo ricorda, infatti.
Ogni qualvolta attraverso le strade di Episcopio, mi sembra di rivederlo seduto su quella panchina, in attesa del mio arrivo. Avremmo trovato sempre un modo per discutere e litigare, di tutto e di tutti. Osservate con attenzione il disegno che avrebbe voluto avere sulla copertina. Lo stivale di una Italia segnata da esplosioni, in una cartina appena abbozzata d’Europa, sotto l’occhio vigile di un misterioso “grande fratello” che non lascia pensare nulla di buono.Leggete attentamente la sua premessa ad un libro che non riuscii e trovare i fondi per stamparlo.
A distanza di oltre trenta anni, quello che scrive Gino ha una struggente attualità: il progresso tecnologico, il concetto di modernità, il consumismo, la droga e la delinquenza, l’abbandono della campagna, una cultura deviante e autoritaria, la follia dell’incomprensibile, la necessità della poesia e del recupero morale e spirituale verso “un possibile futuro tutto da vivere”. Nella sua amata frazione di Episcopio, dove era nato e vissuto, quella “finestra” continua a rimanere chiusa, con l’orologio del tempo fermo al centro del cortile, così come si esprime in una sua poesia in questa inedita raccolta:
L’Orologio
Bisognerebbe gettarli gli orologi/ e inventarne altri/senza che contano le ore,/ma che segnino coi fiori/i giorni e le stagioni.
Neppure il semaforo/conosce il tempo reale …/Ha troppa fretta l’uomo,/come il fiume che corre/saltando montagne e rapide.
Anche i giornali hanno fretta:/raccontano cose non ancora accadute./Costruiscono pensieri inutili/lasciando un dubbio più grande/del giorno dell’orologio.
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