La “Condizione Umana” di Magritte
Il 21 novembre del 1898 nasce Renè Magritte uno dei miei pittori preferiti.
“La condizione umana” è una frase, anzi non è nemmeno una frase, bensì una espressione molto usata in letteratura, ed in genere nella comunicazione di ogni giorno, per descrivere un modo di essere, un sentimento, uno stato d’animo di qualcuno o di gruppi umani che si affacciano alla finestra del mondo ed osservano se stessi e gli altri.
E’ anche il titolo di un quadro che a me piace molto, un olio su tela, 100X81 cm, in esposizione a Washington, alla National Gallery of Art. Opera nata come paradosso riguardante la rappresentazione che vuole sostituirsi alla realtà. Renè Magritte è l’autore. A prima vista sembra che non ci sia nulla di speciale. Una finestra scorrevole, delle tende, un paesaggio e la sua rappresentazione collocati su di un cavalletto.
I colori sono tenui, il verde dominante contro un cielo tra l’azzurro e il bianco. Da un punto di vista tecnico non ci sono preziosismi, effetti particolari. La scena è del tutto normale, quasi da fotografia. L’immaginazione riposa su di una realtà che non lascia molto alla fantasia. Del resto Magritte la dipinse guardando fuori dalla sua finestra dell’appartamento a piano terra, in una strada suburbana di Brussels dove viveva. Due anni dopo quel pezzo di terra che lui fermò sulla tela scomparve.
Il dipinto è un lavoro molto importante nella maturazione artistica di Magritte. Fino alla data del quadro egli si era limitato a produrre dipinti con temi molto enigmatici associati al movimento del surrealismo che lo portava ad una certa frantumazione dei sensi, al mistero ed alla sovversione della realtà. Poi, proprio in quell’anno, fece un sogno molto strano. Raccontò di essersi svegliato nella stanza in cui dormiva e di avere visto che il canarino in gabbia della moglie era volato via ed era stato sostituito da un uovo.
Una specie di rivelazione epifanica che gli svelò un segreto poetico, l’affinità esistente tra due oggetti: la gabbia e l’uovo. Una esperienza allucinata che lo portò ad esplorare il modo misterioso in cui gli oggetti si collegano gli uni agli altri, alla ricerca di ciò che lui poi avrebbe chiamato “affinità elettive”. Una frase forse presa da Goethe e dal suo famoso romanzo nel quale lo scrittore tedesco tenta di dimostrare che il “sapere” è il riconoscimento delle connessioni che legano le cose le une alle altre, come legami in una catena.
Tutto questo portò Magritte a rompere anche con il passato, la rinuncia agli oggetti inventati che aveva spesso usato fino ad allora. I nuovi “oggetti” della sua “filosofia della pittura” erano quelli della vita di ogni giorno come, appunto, in questo caso, una finestra, un quadro, tende, tavoli. Non più oggetti misteriosi da inventare, ma una realtà da re-inventare. Se osserviamo bene questo dipinto vedremo che c’è il dipinto di un quadro che riproduce un paesaggio finto davanti ad un paesaggio vero, una fusione di vero e falso. Si sovrappongono fino a fondersi.
Non sappiamo più dove sia finita la realtà: sul quadro dipinto oppure dietro? Il tutto diventa una metafora. Anzi, a mio parere, le metafore sono due: quella della verità-realtà e quella della pittura-falsità. Solo la striscia bianca tratteggiata della tela divide le due realtà. “Le cose visibili nascondono sempre altre cose invisibili”, ebbe a dire poi Magritte. Andare oltre la realtà fu appunto il desiderio dei surrealisti. Ed in questo si racchiude il senso vero del dilemma umano e della sua condizione: l’incapacità a scavare per trovare le ragioni della nostra esistenza.
Questo post l’ho scritto il 10 Agosto del 2012 ed è firmato galloway sul mio blog unideadivita diventato poi archivio.