James Joyce: torturò la lingua inglese

Antonio Gallo
5 min readFeb 1, 2024

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James Joyce nasce a Dublino il 2 febbraio del 1882. Per capire come la pensava questo grande della letteratura inglese basta riportare una sua frase:

“Ciò che chiedo al mio lettore e’ di dedicare la sua intera vita allo studio dei miei libri”.

Categorico, non vi pare? Ne aveva ben ragione, se pensiamo a quello che ha scritto. Opere come “Ulisse” (1922) e “La veglia di Finnegan” (1939); un romanzo autobiografico “Ritratto dell’artista da giovane” (1916) ed una raccolta di racconti “Storie di Dublino” (1914).

Venne educato dai Gesuiti, ebbe la possibilità di conoscere una prostituta all’età di 14 anni e potè sapere tutto del sesso. Lasciò gli studi di medicina e voleva diventare un uomo di spettacolo. In un albergo di Galway conobbe una cameriera di nome Nora Barnacle all’età di 22 anni quando cominciò ad immaginare la struttura dell’Ulisse, dopo il suo primo incontro con lei, il 16 giugno del 1904.

Una data questa che ha una ricorrenza annuale e viene celebrata come il “Bloomsday”, dal nome del protagonista del libro Leopold Bloom. Poco tempo dopo l’incontro con Nora decisero di lasciare l’Irlanda e scappare in Europa. James pensava di guadagnarsi da vivere insegnando. Tra l’altro fu anche a Trieste. Ma fu un fiasco e fini’ per lavorare in una banca a Roma per un certo tempo.

Sempre in difficoltà economiche, dovettero contare sempre sull’aiuto del fratello di James, Stanislao. Ebbero un figlio che chiamarono Giorgio. Per non averne più, come forma di prevenzione, decisero di dormire separati per non farne più. Ma arrivò Lucia un anno dopo. James fu un buon genitore, tanto da viziare i suoi figlioli, senza mai dare loro una punizione. Ebbe a dire in una intervista: “I figli devono essere educati con amore, non con le punizioni”.

Joyce aveva paura dei fulmini e dei tuoni. Si rifugiava sotto le coperte quando c’era un temporale. Temeva anche i cani e andava in giro con pietre in tasca per paura di essere attaccato dagli animali randagi. Amava solo la musica e la letteratura e non sopportava la pittura. Sulla sua scrivania aveva una immagine che ritraeva Penelope ed una foto di un uomo di Trieste di cui non fece mai nome. Disse che era lei a dargli l’ispirazione per scrivere il personaggio di Leopold Bloom. Sulla scrivania aveva anche una statuina in bronzo di una donna distesa su una sedia con un gatto sulle spalle. Tutti i suoi amici gli dicevano che era orribile, ma a lui piaceva. Un suo amico disse che James aveva dei gusti orribili. Lui aveva solo il genio.

A Joyce piaceva bere e ballare. La figliastra disse che “il liquore gli va giù per le gambe fino ai piedi, non alla testa”. Era solito sedersi con le gambe incrociate, le dita di un piede sotto il tallone dell’altro piede. Era una persona gentile, generoso con chi non conosceva. Invitava sempre i camerieri a bere con lui al suo tavolo. Sylvia Beach, proprietaria della casa editrice Shakespeare and Co, disse che:

“trattava la gente come suoi simili, sia che fossero scrittori, bambini, camerieri, principesse o ciarlatani. Era interessato a tutto quello che la gente potesse dire. Mi disse che non aveva mai incontrato qualche persona che lo annoiasse. Se arrivava in taxi, non usciva mai dalla vettura prima che l’autista non avesse finito di raccontare quanto stava dicendogli. Joyce davvero riusciva ad affascinare tutti. Nessuno poteva resistere al suo fascino”.

James Joyce ha detto: “L’artista, come il Dio della Creazione, rimane dentro, dietro, oltre oppure al di sopra della sua opera d’arte, invisibile, rarefatto nella sua esistenza, indifferente, distaccato a guardarsi le unghie”.

Un esempio della sua famosa prosa va sotto il nome di flusso della coscienza. Una tecnica narrativa che Joyce ha utilizzato in modo innovativo in molte delle sue opere letterarie. Questa tecnica consiste nel raccontare il flusso dei pensieri di un personaggio senza alcun filtro o imposizione logica, sintattica e talvolta anche grammaticale.

In questo modo, il lettore può entrare nella mente del personaggio e comprendere i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue percezioni in modo più intimo e profondo. Un esempio notevole di questa tecnica è il monologo interiore di Molly Bloom nel diciottesimo capitolo dell’opera “Ulisse”.

In questo passaggio, Joyce rappresenta il flusso di coscienza di Molly senza alcuna punteggiatura, organizzazione logica dei pensieri, spiegazioni approfondite o sintassi. Questo rende la modalità di pensiero rapido e scomposto più credibile e realistica:

“sì e poi ho visto che c’era un altro come me veniva giù per la scala e allora ho fatto come se non l’avessi visto e mi sono messa a guardare il quadro di una signora con un bambino e un angelo o qualcosa del genere era un quadro molto bello e mi sono messa a guardarlo e lui è passato accanto a me e ha fatto un rumore con la bocca come se fosse un bacio ma io non gli ho dato retta e allora lui ha fatto un altro rumore con la bocca e mi ha toccato la natica destra con la mano destra e ha detto sì come se mi stesse chiedendo qualcosa e allora ho detto no e mi sono alzata e sono andata via per la porta a vetri e lui mi ha seguita con lo sguardo e poi si è messo a ridere e allora ho fatto un altro rumore con la bocca come se fossi disgustata e così sono uscita.”

Il torturatore della lingua Joyce scrisse solo quattro romanzi nella sua vita, ma con quelli ha cambiato la storia della letteratura. Nell’Ulisse, il suo capolavoro, inventa uno stile del tutto personale, basato sul flusso di coscienza e lo sperimentalismo linguistico. Sulla trama dell’ultima opera, Finnegans Wake, si discute ancora oggi: oltre 600 pagine, scritte fra il 1923 e il 1938, in cui la tecnica del flusso di coscienza arriva all’estremo, sparisce la grammatica, non c’è punteggiatura. Il linguaggio è onirico, la narrazione un sogno. Dal 1904 al 1915 Joyce, nato a Dublino il 2 febbraio 1882, era vissuto a Trieste, città facente allora parte dell’Impero austro-ungarico e quindi legata alla cultura mitteleuropea, dove era già diffusa la conoscenza delle teorie freudiane, che dovevano influenzare sia lui che il suo studente di inglese e amico Italo Svevo. Venne anche a contatto diretto con la pratica analitica: sua figlia Lucia fu per un breve periodo in cura da Jung, con il quale Joyce ebbe un rapporto non facile. La stesura di Finnegans Wake si intreccia con il disagio psichico (lo scrittore soffriva di depressione, fobie varie, abusi alcolici) e l’intensa e simbiotica relazione con la figlia. Il linguaggio fluviale, completamente destrutturato, indifferente a farsi comprensibile, indica una perdita delle coordinate spazio-temporali e del rapporto porto con la realtà. Lo scrittore sembra trasferire sulle pagine del romanzo un codice segreto condiviso con la figlia. Parlando di lei ebbe a confessare: «Qualche volta mi dico che quando lascerò questa lunga notte, lei pure guarirà». «Lei era totalmente la sua ispiratrice, il che spiega la di lui ostinata riluttanza a vederla dichiarata pazza. La sua propria Anima, psiche inconscia, era così solidamente identificata con lei, che il dichiararla pazza sarebbe stata come un’ammissione di avere in sé, lui pure, una latente psicosi.» (C.G. Jung).

(ALMAMATTO)

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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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