Io sono un “apòta”…
Chi conosce un pò di inglese potrà leggere il senso di questo mio post in anticipo e capire il significato della parola. Apòta. Cari amici lettori questi sono brandelli di pensiero che formano il mosaico della mente. La mia mente, come la vostra in questi giorni. Una mente in disordine, pensieri, appunti buttati qua e là, alla rinfusa, a sintetizzare tutta la mia impotenza di apòta.
Non conoscete questa parola? Mi sono sempre sforzato di essere uno stoico, ho apprezzato il pensiero positivo, ho conosciuto il pensiero laterale, ma sono diventato ormai soltanto uno scettico, uno che non presta più fede ingenuamente a quello che sente, vede e legge.
Il termine risale al 1922, coniato dal grande italiano Giuseppe Prezzolini, apparso per la prima volta sulla rivista “La Rivoluzione liberale”, fondata da Gobetti; dal greco apotos ‘che non beve’, composto da a- privativa e dalla radice del verbo pìno bere (che si rinviene, ad esempio, in ‘potabile’). L’apòta è colui che non se la beve. Prezzolini, il mese prima che Mussolini guidasse la marcia su Roma, lo usò per l’occasione.
Costituiva idealmente la “Società degli apoti”: davanti ai tumultuosi accadimenti di quel periodo e alle nuove realtà che si stavano imponendo, la scelta che proponeva era di non lasciarsela dare a bere e sottrarvisi, al fine di ricercare la perduta limpidezza di pensiero. Di lì a poco, infatti, lascerà per sempre l’Italia, per la Francia prima e gli Stati Uniti poi.
Quella dell’apòta è quindi una figura simile allo scettico: non prestare fede a tutto, non credere ingenuamente a ciò che viene detto. Ma l’apòta, inoltre, mostra una certa sfumatura escapista, un’inclinazione all’allontanamento: lo scettico magari resta volentieri al tavolo, l’apòta no.
Sono molti i giornalisti e i letterati italiani che sono ricorsi a questo concetto, idealmente aderendo alla “Società degli apoti”, a volte come espressione di un desiderio di ricercare una verità diversa da quella scodellata, a volte come espressione di una volontà quasi anacoretica di abbandonare confronti ritenuti corruttivi.
Che faccio, mi metto a citare Montanelli, Longanesi, Guareschi, Malaparte? Per dire soltanto alcuni che non ci sono più. Ce ne sono molti anche oggi, pochi e viventi. Le firme sono tutte sui giornali di destra, sinistra e centro, come i loro volti nei salotti e nei talk show, in rete e sui social. Come si fa a credere più in qualcosa, o meglio/peggio ancora, qualcuno, dopo la pandemia con l’arrivo della guerra.
L’ho detta la parola GUERRA, vera, quella con le bombe ed i missili in attesa dell’atomica. Un grande casino, comunisti che diventano fascisti, marxisti si trasformano in nazisti e zaristi, abbondano i qualunquisti e gli opportunisti. Come fai a credere in qualcuno o in qualcosa. Tutte le idee si trasformano in ideologie, tutte le religioni in fanatismi, tutti i pontefici in pope. Direte che sono pessimista? Ma come fai ad essere ottimista?
Come possiamo vivere momenti del genere? Perché, comunque finisca, condizionerà irrimediabilmente il nostro futuro. Siamo in un cul de sac, politico, economico, soprattutto morale. I nodi di decenni di sciaguratezze politiche, economiche, culturali, stanno arrivando al pettine.
La persona colta, istruita e sensibile che mi illudevo di essere, si rifiuta di scrivere banalità gradite al sistema politico-mediatico dominante. Non so bene cosa/come pensare. L’apòta che mi sento diventato preferisce tacere, e rinchiudersi negli opportuni interstizi del mio tempo vissuto. A chi vuoi interessi quello che pensa e scrive un dinosauro come me?
Come comune cittadino, quale sono, ho deciso di premere il tasto “mute”: vedo, sento, leggo di tutto, vagonate di fake truth, meglio dire stronzate. Lo so, la mia è vigliaccheria intellettuale in purezza. Perché? Perché so che il tempo delle chiacchiere è finito. Io dovrei forse scrivere “Siamo tutti ucraini, andiamo a combattere il dittatore Putin, boots on the ground!” Ma non ho il coraggio di scriverlo.
Nessuno ci crederebbe, nemmeno il mio amico artigliere Aniello ufficiale alla SAUSA, quella che fu la Scuola Ufficiale di Foligno. Noi demmo alla Patria 16 mesi della nostra vita, vivendo. Questi ukraini e russi stanno dando la loro vita, crepando davvero. Per che che cosa? La libertà, l’indipendenza, l’ideale? Ma per favore! Non me la bevo!!!
Peggio, mi autoassolvo, come fanno le nostre leadership che si nascondono dietro l’articolo 11 della Costituzione, sapendo che i loro elettori (ormai sempre meno “cittadini”, sempre più ridotti a meschini “consumatori”) non intendono certo “morire per Kiev”: oltre settant’anni di cosiddetta pace non sono passati invano.
Inutile sperare nell’aiuto degli americani, come noi europei vigliaccamente abbiamo fatto per un secolo. Joe Biden è stato chiaro: “Dopo le sanzioni c’è solo la Terza Guerra mondiale”. Anche le mamme americane hanno detto basta mandare i figli a morire per esportare la democrazia delle multinazionali! Tante profezie si sono palesate.
Così l’analisi di Simone Weil secondo cui la guerra disumanizza le persone e le distrugge, riducendole a cose. In quest’atmosfera di disagio morale, che ha reso buie queste giornate, c’è stato un solo raggio di sole marzolino: Francesco che va a trovare, a casa sua, l’Ambasciatore russo di nascosto in una cinquecento. Mica ha preso l’aereo ed è andato a Kiev! Come apòta, dico che oggi lui è l’unico di cui mi fidi, l’unico leader morale che abbia ancora credibilità. Fino ad un certo punto. Ma poi lui non si è mosso da Roma!…