In ricordo di un amico poeta: il “prigioniero” che ha ritrovato se stesso
Come si fa a scrivere della dipartita di una persona con la quale hai avuto modo di condividere quasi un’intera esistenza, più di mezzo secolo di vita? Mai come in una situazione di questo genere valgono le canoniche regole di una scrittura che vuole essere anche un ricordo personale di qualcuno con il quale non puoi più confrontarti.
Il titolo di questo articolo ricalca il post che scrissi sul mio blog il 21 marzo del 2019 in occasione della riedizione del suo primo libretto di poesie. Oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, l’aspirante poeta “prigioniero” del 1968 si è liberato della “prigionia” nella quale la vita l’ha rinchiuso, sino alla fine dei suoi giorni, sulla soglia dei suoi cento anni.
Ogni essere umano è un libro che ognuno scrive sulle pagine del tempo che ci è stato assegnato di vivere. Pagine scritte non solo da noi, nel tempo, nei luoghi e nei modi in cui ci capita di vivere. Ogni pensiero su quelle pagine appare come già stampato a caratteri immobili ed incancellabili secondo quelle leggi che vengono chiamate destino.
Destino. Questa è la fatidica parola che lui, Gino De Filippo, non si stancava mai di ripetere ogni qualvolta ci trovavamo a discutere, riflettere e scontrarci sulla realtà della nostra condizione umana. Lui era convinto che il suo fosse un destino già scritto. Io, non mi stancavo mai di contraddirlo.
Ci sono stati diversi eventi, affatto positivi, che sembrano essere stati davvero fatali nella sua vita. La perdita della sua cara consorte fu senza dubbio il principale. Fu costretto, tutto solo, ad affrontare una nuova realtà che si ostinava a non accettare e non capire. Tra le pieghe che si nascondono negli interrogativi che ogni essere umano pone a se stesso e agli altri, restano sempre inevitabilmente spazi oscuri fatti di incomprensioni, destinati a restare tanto personali e privati, quanto misteriosi ed irrisolti. Vana ed inutile è la ricerca dei torti e delle ragioni. Questi sono solo destinati ad essere le sbarre di quella “prigione” nella quale ogni essere umano costruisce la sua vita. Chi più, chi meno, siamo tutti “prigionieri” di noi stessi.
Un uomo del Sud fatto da sè. Questo era “mast a’ Gino”, un autodidatta nel senso pieno della parola, erede dell’antica tradizione etrusca osco-sarraste della Valle del Sarno: manovale, muratore, imbianchino, carpentiere, disegnatore, progettista, ma anche scrittore, poeta, pittore e sopratutto “mastro” della parola. Un “artista” di quelli veri, senza scuole, accademie o salotti, estraneo alle cronache ed ai circoli chiusi. Solo la quinta elementare, ha frequentato la “scuola della vita”, senza mai mancare all’appello. Mi parlava spesso delle sue origini, di sua Madre, di quel vicolo dove era nato, nella frazione di Episcopio, un mondo scomparso. Di quando lei lo denunziò ai carabinieri perchè voleva imparare a leggere e scrivere.
Invece di andare a “faticare”, lui voleva scrivere. In caserma lo tennero dentro per una mattinata. Quando arrivò il maresciallo, stava per mettere dentro invece sua madre. Da questo ridicolo e paradossale episodio vero nasce quella forte, potente ed incessante esigenza naturale che ha sempre caratterizzato questo mio grande amico: comunicare. La sua era una continua esigenza a dover lanciare un messaggio per capire, magari provocare, lasciare una traccia che fosse il segno della sua presenza ed essenza di essere vivo e pensante.
“Mast ‘a Gino” è andato sempre alla ricerca del “segno” vero dell’esistenza. La sua storia è fatta di parole, disegni, pitture in un ambiente naturale, in una costante incertezza, tra antiche glorie del passato, momenti drammatici del presente e l’incertezza del futuro”.
Così scrissi nella presentazione di una antologia a lui dedicata una decina di anni fa. La si trova degnamente collocata in lettura gratuita nella grande biblioteca digitale del mondo di Internet Archive. Il tempo per chi era davvero nato per scrivere, pur non avendo mai frequentato una scuola, non soltanto non si ferma mai, ma non lo si perde e lo si ritrova, quando meno te lo aspetti. Gino non ha mai smesso di scrivere. Negli ultimi tempi, si rammaricava di non avere più la possibilità di mettere per iscritto i suoi pensieri. Ma la sua mente era sempre attiva. Sapeva essere anche re-attiva. Proverbiale il suo rifiuto ad ogni tipo museruola, inclusa quella imposta dalla pandemia!
Ho avuto modo di avere tra le mani molti dei suoi quadernoni, zeppi di scritture e di disegni. Un vero e proprio mare magnum della sua mente. Se quanto mai misteriosa è la mente di tutti gli esseri umani, un vero e proprio labirinto impenetrabile era quella di Gino: la rabbia e il piacere insieme della comunicazione. Tra i miei libri ho ritrovato un suo dattiloscritto intitolato “Trenda Sonette e ‘llate ccose”, una raccolta che mi dedicò nel mese di febbraio del 1992. Ricordo che gli avevo promesso che avrei trovato il modo di farne un libro.
Non fui in grado di mantenere la parola per varie ragioni, prima di tutto la difficoltà di trovare i fondi, nonostante l’invito che rivolsi agli amministratori ed alle istituzioni locali. Questa raccolta, in gran parte in vernacolo, con una intelligente introduzione sulla realtà del dialetto che lui tanto amava, si sarebbe dovuta chiudere, per contrappeso, con la composizione in versi in lingua inedita che qui di seguito pubblico. Si intitola “Panorami”. La trovo semplicemente stupenda e lascio ai lettori ogni giudizio di merito.
PANORAMI
I
Un minuto, un’ora, un giorno,/un anno … No! Un’eternità/l’ala ferita della farfalla;/un’eternità l’esilio, il freddo/e il silenzio mio, tuo …/Altri cantano glorie/di bandiere gialle. Torneranno,/e non sarò io, nè tu,/ma sempre altri a sedere/nel centro del sole/e fare loro il mondo.
II
Papa padre, Papa figlio;/Ministri e Sacerdoti …/ma soltanto il sacrestano/suona campane a morto./Pellicce benedette, gioielli …/oro di sangue puro!/Altri parlano di guerre,/già combattute e perdute;/da combattere e perdere.
III
Un bosco di silenzio la quercia./Salici e pioppi di lune/fra nevrasteniche sere senza fine./Frammenti di pensieri,/e si muore col sasso in bocca/a mezza voce fra le rive!/Le finestre eccellenti/dominano piazze e fontane.
IV
Il sole sta lontano./Il vento apre cieli di nuvole:/tempo di grandine/per me, per te e non altri./Veli di nebbia le antiche spose/e sogni lacerati …/Sono flauti di piombo e fuoco/a vestire di festa il morto;/a spogliare il mare e le sirene.
V
Sono falco e formica./Sono fiume silenzioso/che scava sotto la culla;/nel segreto d’altra luce/o di stagioni a venire./Tu metà uomo metà bestia/nell’agguato di sempre;/nel tempo che consuma/le ore non vissute …
VI
Il cielo è ferito./Il mare giace senza giorni/di festa nè gabbiani./Mormora la risacca/dove antichi sorrisi/piantarono stelle d’incenso,/d’oro e mirra./Altri varcano i deserti/senza trovare il cammino;/vanno, nel grande lago,/quasi sperduti, a seminare/promesse già svanite.
VII
Essere suono, canto, fiore,/velo di sposa o cascata/di stelle. Andare col vento/per larghe valli e mari/dove mille cuori aperti/attendono l’attesa. Ma tu/non canti, nè tendi mani/al rarefatto aprile; agli occhi/ancor più vuoti del presente.
VIII
Cambiano volto le statue./I quadri e le poesie/stanno fuori dal paesaggio;/dai verdi voli, i teneri/prati all’imbrunita sera./Tu nascondi le ore/dove Ponente di secoli/con mille luci vestì/altri mattini a festa.
IX
Sarò soltanto un numero;/un’ombra sospesa nel buio:/nel buio che uccide prima del sogno,/come altri, ancora altri/e altri ancora …/Nel presente vuoto/fantasmi stranieri/vestiti a festa suonano/musiche pazze di fredde luci.
X
Nere e affamate le navi/e le roulotte bruciano i santi;/da Levante a Oriente/altari imbanditi …/morti acerbe per me, per te/e non altri nel ricambio./Magia di secoli rifatti,/di vecchie strofe dorate/e sermoni di naftalina.
XI
Quante storie incompensibili/nomi impropri trovati/fra malora e malore …/e il mondo invoca Ministri,/guerrieri corazzati e imperi/privi di saggezza./Ma i Prèsidi sono assenti/durante lo sciopero, i libri/di storia non storia/sono rottura concettuale/fra papaline e strip/alla Bocconi e all’asilo nido.
XII
Sono uguali i giorni/e il canto della civetta;/i campanili e le darsene,/come il giorno del sabato,/di fine mese, fine anno./Le rotative maldestre/segnano vessilli e medaglie;/Faraoni e Sacerdoti/cavalcano amore e odio.
XIII
Nel cerchio quadrato/sta il cubo, il triangolo e il rombo./Tutto è Babele! E va/sperduto nella nebbia/la genesi e il dopo./Una fede sospesa vacilla/meridiani e paralleli:/un rincorrere dei padri/nell’impura, lunga notte.
XIV
Rifatela la storia,/senza magia di cabala!/La madre degli eroi/ha occhi profondi;/nella chioma bianca/le ferite e la sconfitta./Abbattete simulacri e sciamani:/falsi figli del tempo,/costruttori di sogni infami.
XV
Roma muore e Roma rinasce./Quante Roma nel mondo/piantano croci e allori;/quanti martiri e vedove/vestono secoli d’attesa./Domani, altro giorno vissuto/di sogni nel sogno …/e saranno pochi a urlare,/gli altri sono assenti.
XVI
Vorrei essere tutto e niente:/sole, pioggia, amore, odio,/gioia, dolore, guerra e pace./Ma i giorni sono corti e traditi;/sono piaga del cielo,/ferita della terra …/come il mare di pietra/che non risacca./Vorrei essere altro giornonel tetto della sera,/ma per voler di Dio/sono soltanto io.
Nella introduzione in dialetto alla sua raccolta di sonetti, così scrive:
“ ‘U munno è na palla ca gire comm ‘a nu strummele, però ‘u strummele gire appoggiate ‘nderra e ‘u munno, invece, gira all’aria”. Siccome ca ‘o sole sta sembe o stesso posto, ‘a terra, giranne, se trova na vota nd’ ‘a luce e na vota nd’ ‘u scure, perciò fa notte e fa iuorne. Po’, quase comme fa l’arbere quanne vott’ ‘u viende, se cocca na vota ‘a cca e na vota ‘a llà, accussì succere ca ‘e sole nge ne sta na vota cchiù ppoco e na vota cchiù assaie, perciò vene na vota ‘a stagione e na vota ‘a vernata. ‘A no poch’ ‘i tiembe ‘i ‘scinziate stanne ricenne ca ‘sta palla, vonne rice ‘a terra, s’abboccate ‘a no lato, perciò s’hanno spostate pure ‘e vernate e ‘e stagione. E se capisce! Pè forza aeva succere’. Pecchè? ricite vuie, e nge vò assaie p’ ‘o ccapì? si mittite nu pise ngoppa a una spalla cchi vi succere? Succere ca v’abboccate ‘no lato … e cheste è succieso c’ ‘a terra: ‘a no lato a stanne sfrattanne a piglià ‘u sciste, ‘a n’ato lato fravecanne palazze e palazze ‘e gemende, ca pèsene comm’ u fierre, no’ ssaie: ralle e dalle ‘u cucuzzielle ‘rrevenne calle … sfratte ‘a cca, rigne ‘a llà e a terra s’abboccate! …” (dicembre/gennaio 1991/92)
Appena ho saputo della scomparsa di Gino De Filippo, lontano da Sarno, non mi è stato possibile dargli l’ultimo saluto. Ho preso tra me mani una copia della riedizione della sua prima silloge di poesie ripubblicata gratuitamente per merito delle Edizioni “Tipolitografia Buonaiuto” di Sarno e per volontà del suo titolare Luigi Buonaiuto, in ristampa anastatica in un numero limitato di copie non venali.
L’idea di questa pubblicazione nacque quando un gruppo di amici si ritrovò a festeggiare “Masta Gino” in occasione dei suoi novanta anni. Si scoprì che di tutti i libri da lui pubblicati nel corso degli anni, soltanto questo, il primo, uscito nel 1968, non era reperibile. Pochi ne avevano memoria. Nacque così l’idea della ristampa che oggi, in un viaggio a ritroso nel tempo, segna l’inizio di un percorso esistenziale legato alla creatività di un “prigioniero” che, d’allora, non si è mai fermato nel suo cammino lungo i sentieri della comunicazione.
Come ebbi modo di scrivere nella breve antologia intitolata “Alle Falde del Monte Saro” che ho citato innanzi, contenente una sintesi dei suoi lavori, Gino ha continuato a scrivere instancabilmente. Giorno dopo giorno “quadernoni” pieni di poesie, racconti, pensieri, accuratamente raccolti e conservati, in attesa di essere letti a futura memoria. Sono la memoria viva di un uomo che, in lingua o in vernacolo, ha parlato a se stesso e al mondo.
Non sempre è stato capito, ascoltato, compreso, aiutato. Molto spesso, in una realtà locale come la nostra nella quale l’apparire ha sempre la meglio sull’essere, la forma sul contenuto, il detto sul non-detto, mi rendo conto che non era cosa facile raccogliere i suoi messaggi, comprendere i suoi modi di comunicare, in lingua o in dialetto, in versi o in disegni, progetti e pitture.
Mi duole dire che, molto spesso, in diverse occasioni, i suoi tanti “laudatores”, ammiratori dei suoi versi e delle sue storie, giudici parziali dei suoi progetti, ammiratori astuti dei suoi disegni, hanno usato, sfruttato ed utilizzato le sue idee, la sua genialità, senza alcun riconoscimento, manipolando la sua buona fede, tradendo le sue intenzioni. I suoi “occhi di bambino con la voglia sempre di giocare” sono stati quasi sempre ingannati, E lo hanno lasciato solo su una panchina a trascorrere in disumana solitudine i suoi ultimi giorni di “prigionia”. Il vissuto di un Uomo che ha sempre aspirato a fare della sua scrittura un’avventura.
Non gli ho potuto dare il mio ultimo saluto, ero lontano da Episcopio quando ho saputo della sua dipartita. Ho postato su FB la poesia che segue e con lui ho condiviso questa mia lontananza. Fa parte della silloge pubblicata da Rebellato nel lontano 1968. Ci conoscevamo già da qualche anno, dopo il mio ritorno dalla esperienza linguistica in Germania e in Inghilterra. Lui era stato per diverso tempo a lavorare in un cantiere di persone VIP in Sardegna. Gli avevano proposto un brillante futuro come “mastro” nell’edilizia. Cominciava anche a dimostrare il suo estro artistico nella poesia, nel disegno, nella pittura. Non volle mai lasciare la sua amata consorte e la sua famiglia. Si sentiva vittima del suo destino di “prigioniero”. Ora che se n’è andato sono sicuro che nei Campi Elisi avrà ritrovato se stesso.
ORA
Ora che è estate/non posso venire./I binari infocati/bruciano i miei piedi nudi./Meglio restare/nella quiete della campagna./Verrò in autunno/a cercare fra le tue mani/le bancarelle di Piedigrotta./Lascia che riposi./Mi pesano sulle spalle/le battaglie perdute/e fra le mani s’agitano/ancora il mare, nastri rossi/e lame d’argento e di fuoco./Sto qui, sotto il sole/lontano dai balocchi,/aspetto la notte e il silenzio./Eppure/i miei occhi di bambino/hanno ancora voglia di giocare.