In memoriam … L’ineffabilità dei ricordi

Antonio Gallo
9 min readNov 21, 2024

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Harperbury Hospital Il luogo
Ugo Ponte

Leggere in sequenza questi ritagli da FB significa creare il necessario contesto a questo post. Non so chi mi leggerà, mi interessa poco. Sono io che ho bisogno di scrivere quello che penso e lo faccio per rileggermi. Un monologo interiore, un flusso di coscienza, un dialogo con me stesso. Scrivo a spezzoni. Alla tastiera del PC o allo smartphone, digito, leggo, mi rileggo, scrivo e riscrivo, in una continua alternanza di pensieri, vivendo il presente, evado nel passato, mi illudo di entrare in un ineffabile futuro. Perchè di questo si tratta. Vivere nella illusione di ignorare il passato, quando ti trovi a dovere attraversare il muro di nebbia del presente.

I ritagli di schermate che ho messo in premessa a questo post creano il contesto che si riassume nei classici interrogativi di sempre. Iniziano con la fatidica, necessaria identità del “chi” per poi procedere al “cosa”, “quando”, “dove”, “perché”. La domanda allora è: “chi è chi?” Alla quale, inevitabilmente deve seguire di “cosa” parlo ? ma soprattutto di “quando?”. Il primo interrogativo riguarda ovviamente “me” e un’altra persona che è “ritornata”, inaspettatamente dal passato, a distanza di oltre mezzo secolo.

Un mondo che non esiste più, lo lasciai senza rimpianto, ricordo bene. Quando a Dover mi imbarcai sul battello per Calais, all’ufficiale di polizia inglese che controllava i miei documenti, risposi in maniera sprezzante, alla sua domanda se sarei rientrato. Risposi con un secco “never again!” e gli restituii la tessera di identità britannica che mi era stata concessa per lavorare. Avevo le mie buone ragioni. C’era il rischio di diventare un caso mentale.

Oggi, a distanza di tanti anni, posso dire che sbagliavo. Di fatto, sarei ritornato molte volte sulle Isole Britanniche, ma di certo non nel posto che quella mattina lasciavo. A quella fermata del bus 713 della Greenline diretto a Londra Victoria Station, in Harper Lane, era venuto a salutarmi il mio indimenticabile amico e collega di lavoro Shabu. A poca distanza l’ingresso ad un grande parco dove c’era una istituzione che avrei poi considerato la mia vera università.

Soltanto molti anni dopo mi sarei reso conto di avere appreso più cose in quel posto di tutte le altre scuole o università che avrei avuto la possibilità di frequentare. Col tempo ho compreso, quando quel luogo sarebbe stato cancellato, che quella esperienza era stata per me la vera esperienza di vita. Oggi quel posto è diventato un “derelict place”, uno di quei luoghi abbandonati o trascurati, spesso caratterizzati da edifici in rovina o aree non più utilizzate. Questi spazi possono essere fatti di tutto, inclusi ex ospedali.

Harperbury Hospital era uno di questi, insieme ad altri due alla periferia dell’antica città romana di St. Albans (Verulamium), Napsbury Hospital e Shenley Hospital. Luoghi dove vivevano migliaia di pazienti, maschi e femmine, bambini, giovani, adulti e anziani, malati nel corpo e nella mente, oggi fantasmi della memoria di chi ci ha vissuto, lavorato, sofferto, e anche studiato e amato. Una realtà cancellata. Oltre mezzo secolo fa. L’inizio dei ruggenti anni sessanta: 1961/62/63.

In maniera quanto mai ineffabile, qualche giorno fa, leggo in una chat su Harperbury Hospital la comunicazione della scomparsa di una persona con la quale, da quando lasciai quel posto, non ho avuto più contatti. Si comunicava la scomparsa di una persona come si legge negli screenshot che pubblico. Si chiamava Ugo Ponte ed era stato mio collega e amico. Aveva la sua stanza al terzo piano nell’edificio dove abitava il personale dell’ospedale residente.

Ricordo bene quel luogo. Fu lì che cominciai il mio percorso di apprendimento “inglese”. Lo chiamavamo “Staff block”, era uno dei due centri nevralgici dell’ospedale. L’altro era nell’edificio all’ingresso della vasta area, simile ad un grande parco, sulla quale si susseguivano in un ordine preciso i “ward”, i vari reparti, chiamati anche “villa”, opportunamente numerati, con pazienti ospitati a seconda delle varie patologie e condizioni fisico-mentali.

Lo “Staff block” era riservato al personale maschile, si trovava nella parte sinistra del parco, l’edificio degli uffici al centro, a destra la parte femminile con la “Nurses home” per il personale femminile. Tutti i reparti erano legati da una rete stradale. Una grande area dotata anche di panchine e capanne belvedere in legno, in una realtà operativa organizzata, autonoma ed autosufficiente. Al limite della sua estensione, verso nord, c’era anche un campo coltivato per verdure e frutta, una fattoria con diversi animali, una farmacia, diversi cottages per funzionari residenti. Nei pressi dello staff block c’era un club con piscina, coffee shop, campo di tennis e bowling green.

Quando misi piede per la prima volta in questo posto fui ospite, per così dire, di un amico che ci lavorava. Ero stato in visita in Inghilterra come turista ad una signora di origine italiana che avevo conosciuto a Tramonti, in Costa d’Amalfi. Mi portò da Morden, a sud di Londra, a St. Albans. Avevo il passaporto con il permesso di soggiorno per tre settimane in scadenza.

Trascorsi la notte da clandestino nella stanza di questo amico in attesa dell’intervista che avrei avuto l’indomani con la direzione dell’ospedale per essere assunto come “nursing assistant”. In questa occasione ebbi modo di conoscere Ugo Ponte che allora era “student nurse”. Fece da intermediario aiutandomi nell’intervista a compilare i documenti per l’assunzione. Aveva una stanza al terzo piano, diventammo amici.

Mi sistemarono al piano terra. Fu così che cominciò la mia avventura di studente infermiere in un ospedale per malati mentali e fisici chiamato Harperbury Hospital, Harper Lane, Radlett. Sarebbe durata oltre due anni. Da “Nursing Assistant” sarei diventato “Student Nurse”, superando l’esame del primo anno con il quale mi sarei pagato una vacanza in Italia, con il mio primo volo Alitalia. Conservo ancora la lettera con la quale mi venne spedito l’assegno del Minister of Health National Service di 80 sterline.

Una somma all’epoca eccezionale. Se avessi concluso il corso triennale di lavoro e studio e sarei diventato Staff Nurse con tanto di diploma. Il passo successivo sarebbe stato Charge Nurse, per poi finire Nursing Officer in un cottage gratis del servizio sanitario inglese. Esattamente la carriera che poi ha fatto Ugo Ponte. A quei tempi gli ospedali inglesi pullulavano di giovani lavoratori e studenti provenienti da ogni parte del mondo, chi per studiare la lingua, chi per costruirsi un futuro.

Nel corridoio dove abitavo, ricordo ancora i nomi di chi condivideva questa esperienza che aveva il sapore di un’avventura. Dopo la mia stanza c’era quella di un olandese, si chiamava Valet, poi c’era un portoghese Raposa, seguiva uno spagnolo Gomez. In fondo c’era il mio grande amico Shabudin Esmail. Ai piani superiori c’erano lo spagnolo Salvador Rodriguez, l’italiano Aldo Lepore, Michele Saponara e Ugo Ponte.

Con questi amici potevamo condividere esperienze di vita, di lavoro e di avventure che sono rimaste poi nella mia mente, vita vissuta in una maniera che è diventata difficile, se non impossibile, da raccontare. Ricordi ineffabili. Una ineffabilità che si riferisce alla difficoltà di esprimere a parole esperienze emotive e sensoriali che, pur essendo profondamente vissute, sfuggono a una descrizione adeguata.

Ho potuto vedere una foto di Ugo Ponte fatta poco prima della sua scomparsa. Ho riconosciuto quel volto anche se con grande difficoltà a distanza di oltre sessanta anni. Si giocava a bigliardo, nella sala al piano terra, si guardava la Tv e si commentavano i programmi, si giocava a dama o a scacchi. Con Ugo giocavo in shorts sul campetto da tennis in cemento, o sul bellissimo tappeto del verde bowling green.

Il telefono nel corridoio suonava e lui mi cercava per dirmi che c’era qualcuno per me. I libri della piccola biblioteca erano impossibili da leggere e ne chiedeva sempre di nuovi. Molto spesso il dinner nella dining room era davvero troppo inglese, impossibile da mangiare. Eravamo sempre pronti a protestare con il cuoco che tutto sapeva fare tranne che cucinare. Ugo sapeva protestare usando la lingua con grande precisione lessicale e un accento che ci teneva a dire di Cambrigde non di Oxford. Litigava spesso con Starling, un collega inglese che parlava un orribile e incomprensibile slang.

Ugo Ponte aveva qualche anno più di me. Mi sono guardato allo specchio, ho guardato alcune mie foto di quei tempi e ho avuto la stessa difficoltà a riconoscermi, quella stessa di quando ho visto la sua immagine di oggi e ho pensato a quella sua di allora. Per una strana coincidenza mi sono ritrovato tra le mani un libro scritto da Giuseppe Sgarbi (padre di Vittorio) intitolato “Non chiedere cosa sarà il futuro”. Sulla seconda di copertina ho letto questo testo:

“Cosa vuoi di più”, chiede l’uomo che mi fissa allo specchio. “Ma chi, io?” “Certo tu, chi altri” “Nulla. Non voglio nulla. Perchè?”. “Vorrei vedere …” Ci mancherebbe altro che avessi anche il coraggio di lamentarti …”. “Oh, bella sta a guardare — adesso — che uno dovrebbe anche festeggiare il fatto di essere diventato vecchio!” “Dovresti, invece” “Ah, sì?” “Pensaci bene, hai dimenticato quello che diceva nonna Angela?” “Veramente ne diceva tante …” “A proposito della vecchiaia… voglio dire …” “Mi prendi alla sprovvista, ora non ricordo …” “La vecchiaia è una brutta cosa” diceva. “Ma l’alternativa è di gran lunga la peggiore.”

Giuseppe Sgarbi esplora in modo profondo e riflessivo la relazione tra passato, presente e futuro, offrendo una visione che invita a considerare il tempo non come una linea retta, ma come un intreccio complesso di esperienze e aspettative. Il passato come un elemento immutabile, qualcosa che non può essere cambiato. Esso rappresenta le esperienze vissute, le scelte fatte e le lezioni apprese.

Ma anche che il passato è soggetto a reinterpretazione: i ricordi possono essere influenzati dal nostro stato d’animo attuale. Questo significa che il modo in cui percepiamo il passato può variare a seconda delle nostre esperienze nel presente e delle nostre aspettative per il futuro. In questo senso, il passato non è solo un insieme di eventi conclusi, ma una parte attiva della nostra identità. Il presente è descritto come l’unico momento realmente tangibile.

Sgarbi enfatizza l’importanza di vivere nel qui e ora, di apprezzare ogni istante senza lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni riguardo al futuro. Il presente diventa quindi un’opportunità per agire, per fare scelte consapevoli che possono influenzare la nostra vita in modo significativo. L’autore invita i lettori a focalizzarsi su ciò che possono fare oggi, piuttosto che rimuginare su ciò che è già accaduto o su ciò che potrebbe accadere.

Il futuro è visto come un campo di possibilità e incertezze. Sgarbi sostiene che le nostre aspettative sul futuro hanno un potere straordinario nel modellare le nostre azioni nel presente. Le paure e le speranze riguardo a ciò che verrà possono influenzare profondamente il nostro comportamento attuale. In questo modo, il futuro non è solo qualcosa che ci attende; è anche una forza attiva che guida le nostre decisioni quotidiane.

L’idea centrale è che, sebbene non possiamo controllare ciò che accadrà, possiamo influenzare il nostro percorso attraverso le scelte fatte nel presente. Non chiedere cosa sarà il futuro offre una visione integrata del tempo, in cui passato, presente e futuro sono interconnessi in un dialogo continuo. Sgarbi invita i lettori a riconoscere l’importanza di vivere pienamente nel presente, mentre si preparano ad affrontare le incertezze del futuro con consapevolezza e determinazione.

Questa riflessione sulla temporalità ci spinge a considerare come le nostre esperienze passate e le nostre aspettative future possano coesistere e influenzarsi reciprocamente, rendendo ogni momento della vita un’opportunità unica per crescere e cambiare.

Mi rendo conto quello che penso scrivendo questo post ha tutte le caratteristiche della ineffabilità. Mi muovo tra presente passato e futuro ben sapendo che nessuna delle tre realtà può essere vissuta separatamente. Sant’Agostino sosteneva che esiste il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro. La notizia della scomparsa del mio passato amico Ugo mi ha riportato in un passato presente che per lui è diventato futuro.

Se anche io avessi deciso di rimanere in Inghilterra, magari in quel posto diventato derelict e poi scomparso, sarei diventato come lui. Sarei stato un altro. Una persona del tutto diversa. Ma sarei passato a miglior vita oppure starei ancora qui come ci sono ora? Ineffabili sensazioni, sentimenti, pensieri e idee di qualcuno che può ritenere oziosi o futili, ma pensieri che ti sorprendono nella loro ineffabilita’. Che la terra ti sia lieve, caro Ugo Ponte.

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Antonio Gallo
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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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