Il “suicidio medicalmente assistito”. A chi appartiene la vita?

Antonio Gallo
4 min readNov 13, 2023

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Foto@angallo

Una domanda filosofica e forse provocatoria. Tanto per aiutarci a vivere, tra cataste di morti e speranze di vita: a chi appartiene la vita, la vita di ognuno di noi, ed anche quella di chi non ce la fa più a respirare? Questa “creatura” è un individuo o una persona? Sono individui o persone gli arabi, israeliani, palestinesi, ebrei, per non dimenticare poi gli ucraini e i russi, i serbi, i cinesi, i bianchi e i neri e tutti gli altri?

Tu, caro lettore che eventualmente mi leggi, a chi ti senti di appartenere? A te stesso o alla tua famiglia, alla tua religione, al tuo partito, alla tua ideologia, filosofia, patria, se ne hai una? Mi aiuti a capire, se possibile? Ricordate la storia di Indi Gregory ? Ormai appartiene a madre Natura, ad essa è ritornata, secondo altri è nel regno dei cieli col suo Creatore, in un universo senza fine.

Bambina, cittadina inglese o italiana, non fa differenza. A noi non resta che la sua memoria. Quei pochi giorni che ha vissuto costituiscono la sua unica dimensione che si ritrova nella sua eternità. A questa “eternità” appartenevano tutte quelle “creature” denominate “pazienti”, che ho accudito in quella stessa Inghilterra dove è nata e passata a miglior vita Indi Gregory.

Alla sua memoria dedico questo post, dopo di aver letto dell’approvazione in Toscana della legge sul suicidio medicalmente assistito.

A distanza di tanti anni, non avrei mai pensato che quei due anni trascorsi in quell’ospedale inglese per pazienti con handicap fisici e mentali, giovani e vecchi, adulti e bambini, maschi e femmine, avrebbero avuto tanta importanza nella mia formazione morale, intellettuale, culturale e sociale.

Ero giovane, lo so. Pronto alle avventure. Pronto ad affrontarle senza sapere quello che facevo. Ho avuto la possibilità di conoscere, visitare e frequentare diverse istituzioni universitarie, ma nessuna come Harperbury Hospital ha avuto tanta importanza. In una delle tante vite che ogni essere umano vive, posso dire di averne avute diverse.

Una di queste è stata quella quando sono stato studente infermiere proprio in quell’ospedale a nord di Londra diventato poi un luogo della mente che mi porterò dentro per sempre. Ne ho scritto in diverse occasioni. Ogni qualvolta è in gioco la vita, mi torna in mente quella esperienza.

Specialmente quando guardo la foto di chi, in un letto di ospedale o di casa, aspetta la fine, vuole uscire dal mondo e si chiede se c’è qualcuno che lo aiuti. Adesso con questa legge potrebbe essere possibile. In fondo, si dice che la vita ci appartiene, noi siamo la vita, ne siamo padroni, possiamo farla finita quando vogliamo, quando non ce la facciamo a sopportarla o a sopportarci.

La nuova legge, se mai vedrà la sua applicazione, lo prevede. Si chiama suicidio assistito e si stabilisce l’iter per morire. Il fine vita, la morte programmata, per curare la vita. Un paradosso. Quando fui costretto a legare le mani a mio Padre, sul letto poco prima di spirare, perché voleva liberarsi della sonda per la respirazione, lo feci indubbiamente soffrire più di quanto meritasse.

Ma non potevo aiutarlo a trapassare prima del tempo. La Natura doveva fare il suo corso. Così fu. Non lo accompagnai a morire prima, prima del suo tempo. Mi ostinai a tenerlo in vita, pur sapendo che soffriva e mi chiedeva di farla finita. Non potevo smettere di farlo respirare e vivere. Avevo aiutato a vivere, anzi direi sopravvivere, tutti quei pazienti inglesi di Harperbury.

Non potevo “uccidere” mio Padre. Harperbury continua ad essere la mia ossessione. Credo che lo sarà fino alla fine. La “mia” fine. Come e quando sarà, non lo so. Ma “sarà”. Quel mio amico prete ripete sempre che “siamo tutti in sala d’attesa”. Quando verrà il mio turno e mi renderò conto di essere rimasto solo nella sala, capirò che è arrivata l’ora. Andrò col pensiero a quei miei pazienti che assistevo ad Harperbury.

Durante il corso di formazione che seguii per sei mesi, prima dell’esame per il livello preliminare annuale, ebbi modo di conoscere quella realtà umana che non immaginavo potesse esistere. Si trattava di curare e tenere in vita “creature” che non avevano alcuna aspettativa di vita futura normale. Fatali lesioni cerebrali, handicap fisici totali, deficienze mentali e fisiche senza speranza.

Creature viventi che dovevamo aiutare a tenere vivi senza che essi sapessero qualcosa del loro essere in vita. Neonati, fanciulli, bambini, ragazzi che sarebbero cresciuti, diventati maschi e femmine, sarebbero diventati adulti con le loro “deficienze” e sarebbero poi stati trasferiti in altri reparti. Ricordo in particolare quello dei bambini e dei vecchi.

Quello riservato ai soggetti pericolosi aveva le pareti di gomma e la stanza con la terapia elettroconvulsivante. Tutti dovevano vivere, pur non sapendo la maggior parte di essi a chi apparteneva la loro vita e cosa fosse. La questione è stata oggetto di dibattito in vari contesti, tra cui l’etica, il diritto e la religione. L’Italia continua a fare la sua parte, come la fece offrendo la possibilità ai genitori di Indy Gregory di curare la loro figlia in Italia in un ospedale di proprietà del Vaticano.

Il diritto inglese ebbe il sopravvento, fu staccata la spina e Indy smise di soffrire. Perchè di questo si trattava. Smettere di far soffrire un essere umano, secondo alcuni. Secondo me, questa decisione fu un errore perchè la Natura rimane un mistero complesso e imprevedibile nelle sue manifestazioni. La “natura” di Indy avrebbe potuto reagire in un modo a-scientifico ed imprevisto. La decisione inglese di staccare la spina dimostrò che la vita appartiene allo Stato.

Tutto il contrario di quello che facevamo ad Harperbury. Tutto quello che in Toscana pensano sia possibile fare in tutta Italia. Il tanto decantato terribile “mondo nuovo” continua ad essere sempre più terribilmente “nuovo”. Harperbury Hospital, devo dirlo, è diventato un derelict place. Spero che questa legge venga impugnata a livello nazionale.

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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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