Il sogno irraggiungibile di Babele

Antonio Gallo
8 min readApr 22, 2022

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The Spectator

Il post che segue non è farina del mio sacco, anche se il mio “sacco” è pieno di esperienze linguistiche maturate nel corso di una intera vita, in piacevole e anche battagliera compagnia, con l’altra metà del cielo: mia moglie.

Ricordo ancora con grande, romantica malinconia le discussioni, con gli inevitabili litigi, che facevamo quando studiavamo insieme per gli esami di glottologia e filologia all’università I.U.O. I bisticci riguardavano i distinguo e le differenze che il linguista francese Ferdinand de Saussure faceva tra langue, langage et parole.

Qui al link, chi vuole può approfondire. L’articolo che ho appena letto sul settimanale inglese The Spectator mi ha riportato indietro di oltre mezzo secolo. Merita di essere conservato a futuro memoria sul mio blog qui su MEDIUM.

Per marcare in maniera ancora più forte le differenze dei tempi e dei contesti che intercorrono tra le lingue e i linguaggi di cui parlava de Saussure e quelli contemporanei, l’articolo non l’ho tradotto io.

Me lo sono fatto tradurre in automatico, in un lampo, da quella mente-cervello-linguistica che è diventato Google con il suo traduttore automatico. In un attimo, con il tocco di un semplice clic puoi passare da qualsiasi lingua in oltre cento altre lingue (o linguaggi?).

Babele non è più un mito, ma un algoritmo che scioglie tutte le lingue livellando pensieri e differenze. Buona lettura bilingue e grazie Google!

Un linguaggio universale sarà sempre un sogno irraggiungibile. Per secoli idealisti e pazzi hanno cercato di inventare una lingua globale, ma nemmeno l’esperanto ha avuto successo. Marina Yaguello spiega perché.

Il comico Sacha Baron Cohen, nel suo personaggio teatrale come l’ottuso intervistatore Ali G, una volta ha chiesto a Noam Chomsky se una persona potesse semplicemente inventare un nuovo linguaggio da zero. Il famoso linguista gli diede una breve attenzione: “Puoi farlo se vuoi e nessuno ti presterebbe la minima attenzione perché sarebbe solo una perdita di tempo”. Nel corso della storia, tuttavia, una serie eterogenea di eccentrici ha fatto proprio questo e ha ricevuto un bel po’ di attenzione.

Pubblicato originariamente nel 1984 ma solo ora tradotto in inglese, l’affascinante indagine sui linguaggi costruiti di Marina Yaguello rivisita la storia di due progetti intellettuali distinti ma interconnessi — e ugualmente fantasiosi –: il tentativo di far risalire le origini di tutte le lingue del mondo a un’unica lingua primordiale; e il sogno di costruire un linguaggio universale che alla fine avrebbe soppiantato tutti gli altri.

Non è necessario essere mentalmente disturbati per inventare un linguaggio, ma aiuta: glossomaniaci, paranoici e megalomani sono ben rappresentati in questo pantheon. L’archetipo dell’innovatore di Yaguello è un tragicomico ossessivo che ricorda Edward Casaubon in Middlemarch di George Eliot :

“Possiamo immaginare il logofilo in uno studio pieno di libri; tutt’intorno si trovano grandi quantità di informazioni ancora da raccogliere, classificare, elencare e indicizzare su innumerevoli tavoli e carte. Un delirio di denominazione, follia tassonomica, ha colto questa figura solitaria…”

Manovelle e fantasmi abbondano. La badessa del XII secolo Ildegarda di Bingen, inventrice della prima lingua artificiale conosciuta, la lingua ignota , affermò che le era venuta in una visione divina. Una delle tante curiosità divertenti in “Imaginary Languages” ​​riguarda la medium svizzera del XIX secolo Hélène Smith, che pretendeva di comunicare con i marziani durante le sue sedute spiritiche. Quando le fu fatto notare che le strutture grammaticali e sintattiche del suo “marziano” erano stranamente simili a quelle del francese, se ne andò e compose un’altra lingua extraterrestre, che chiamò “ultramarziana”. Il suo lessico era più ritagliato e la sua sintassi deliberatamente alterata per non assomigliare al francese.

Questi sforzi hanno assunto una dimensione politica nell’era moderna. Gli utopisti della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, tra cui L.L. Zamenhof, l’inventore dell’esperanto, credevano che una lingua universale potesse inaugurare una nuova era di pace e fratellanza internazionale. Due guerre mondiali e l’ascesa dell’inglese a qualcosa di simile a una lingua franca globale, messo a frutto tali speranze.

La chimera di una lingua universale potrebbe anche essere arruolata per fini reazionari, come dimostra la carriera del filologo sovietico di origine georgiana Nikolai Marr. Ha diffuso una volgare teoria marxista secondo cui la lingua è una sovrastruttura che rispecchia la base economica della società e l’unificazione di lingue diverse in un’unica lingua è il punto logico dello sviluppo nazionale. Sebbene screditate dai colleghi linguisti, le sue idee furono approvate da Stalin negli anni ’30 per conferire legittimità intellettuale al suo programma imperialista di russificazione.

Alcuni bei linguaggi immaginari si trovano nelle opere di narrativa. Le persone nell’Utopia di Tommaso Moro (1516) parlano una miscela di greco e persiano chiamata — fantasiosamente — utopica; in Man in the Moone (1638) di Francis Godwin , una popolazione lunare comunica tramite un linguaggio musicale in cui ogni espressione forma una melodia; nella Stella rossa di Alexander Bogdanov (1908), tutti gli abitanti di Marte parlano la stessa lingua marziana; i romanzi di JRR Tolkien presentano dialetti immaginari ispirati all’anglosassone; il Neolingua in Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell è probabilmente l’esempio di fantasia più noto di un “linguaggio filosofico”, uno specificamente progettato per delimitare i confini del pensiero accettabile.

Yaguello, professore di linguistica allUniversità di Parigi VII, rileva un difetto cruciale in molte lingue inventate. La pulizia ermetica a cui aspirano i loro creatori — cercando di sposare “armonia, eloquenza, franchezza, logica, chiarezza di riferimento, musicalità, simmetria, regolarità ed economia” — contrasta nettamente con la realtà disordinata delle lingue naturali.

Sottolinea l’eccessivo schematismo del Volapük, una pretesa lingua universale ideata da un prete cattolico tedesco nel 1879, che “contiene stati d’animo che non si trovano spesso nelle lingue del mondo, ad esempio l’operativo e il dubitante”. Non è un caso che la lingua costruita più duratura, l’esperanto, sia anche tra le meno rigide; il fatto che abbia generato una serie di varianti è ‘un segno di vitalità’.

Se il desiderio di progettare nuovi linguaggi ha avuto origine da una certa pulsione innata — un impulso nevrotico a organizzare, codificare e controllare che risiede in ognuno di noi in misura maggiore o minore — è nella natura del linguaggio resistere a tali limitazioni. Flessibilità e mutevolezza sono essenziali; il flusso è una caratteristica, non un bug. «Un linguaggio universale», scrive Yaguello, «è impossibile quanto il moto perpetuo». Ma quando mai la futilità ha intralciato una buona idea? Il catalogo delle lingue inventate è più di una semplice curiosità culturale: è un monumento, in realtà, alla follia arrogante dell’intelligenza umana.

SCRITTO DA Homan Barekat — THE SPECTATOR — Tradotto da Google

Il Libro

A universal language will always be an unattainable dream. For centuries, idealists and crackpots tried to invent a global tongue, but even Esperanto never took off. Marina Yaguello explains why.

The comedian Sacha Baron Cohen, in his stage persona as the dim-witted interviewer Ali G, once asked Noam Chomsky if a person could simply invent a new language from scratch. The renowned linguist gave him short shrift: ‘You can do it if you like and nobody would pay the slightest attention to you because it would just be a waste of time.’ Throughout history, however, a motley array of eccentrics has done just this, and received a fair bit of attention.

Originally published in 1984 but only now translated into English, Marina Yaguello’s fascinating survey of constructed languages revisits the history of two distinct but interlinked — and equally fanciful — intellectual projects: the attempt to retrace the origins of all world languages to a single primordial tongue; and the dream of constructing a universal language that would eventually supplant all others.

You don’t have to be mentally disturbed to invent a language, but it helps: glosso-maniacs, paranoiacs and megalomaniacs are well represented in this pantheon. Yaguello’s archetypal innovator is a tragicomic obsessive reminiscent of Edward Casaubon in George Eliot’s Middlemarch:

“We can picture the logophile in a study crammed with books; all around lie vast quantities of information yet to be collated, classified, listed and indexed on countless tables and cards. A delirium of naming, taxonomical madness, has seized this solitary figure…”

Cranks and fantasists abound. The 12th-century abbess Hildegard of Bingen, inventor of the earliest known artificial language, lingua ignota, claimed it came to her in a divine vision. One of several amusing tidbits in Imaginary Languages involves the 19th-century Swiss medium Hélène Smith, who purported to communicate with Martians during her seances. When it was pointed out that the grammatical and syntactic structures of her ‘Martian’ were uncannily similar to those of French, she went away and composed another extraterrestrial tongue, which she called ‘Ultra-Martian’. Its lexicon was more clipped and its syntax deliberately mangled so as not to resemble French.

These endeavours took on a political dimension in the modern era. Utopians of the late 19th and early 20th centuries — among them L.L. Zamenhof, the inventor of Esperanto — believed a universal language could usher in a new age of international peace and brotherhood. Two world wars, and the rise of English to something like a global lingua franca, put paid to such hopes. The chimera of a universal language could also be enlisted for reactionary ends, as demonstrated by the career of the Georgian-born Soviet philologist Nikolai Marr. He peddled a vulgar Marxist theory that language is a superstructure mirroring society’s economic base, and the unification of different languages into a single tongue is the logical endpoint of national development. Though discredited by fellow linguists, his ideas were endorsed by Stalin in the 1930s to lend intellectual legitimacy to his imperialist Russification agenda.

Some very fine imaginary languages are to be found in works of fiction. The people in Thomas More’s Utopia (1516) speak a blend of Greek and Persian called — imaginatively — Utopian; in Francis Godwin’s Man in the Moone (1638), a lunar-dwelling population communicate via a musical language in which each utterance forms a melody; in Alexander Bogdanov’s Red Star (1908), all the inhabitants of Mars speak the same Martian tongue; the novels of J.R.R. Tolkien feature fictional dialects inspired by Anglo-Saxon; the Newspeak in George Orwell’s Nineteen Eighty-Four (1949) is probably the best known fictional example of a ‘philosophical language’ — one specifically designed to demarcate the boundaries of acceptable thought.

Yaguello, a professor of linguistics at the University of Paris VII, notes a crucial flaw in many invented languages. The hermetic neatness to which their creators aspire — seeking to marry ‘harmony, eloquence, straightforwardness, logic, clarity of reference, musicality, symmetry, regularity and economy’ — contrasts markedly with the messy reality of natural tongues. She highlights the excessive schematism of Volapük, a would-be universal language devised by a German Catholic priest in 1879, which ‘contains moods not often found in world languages — for example, the operative and dubitative’. It’s no coincidence that the most enduring constructed language, Esperanto, is also among the least rigid; the fact that it has spawned a number of variants is ‘a sign of vitality’.

If the desire to engineer new languages originated in a certain innate drive — a neurotic impulse to arrange, codify and control that resides in all of us to a greater or lesser extent — it is in the nature of language to resist such limitations. Flexibility and mutability are essential; flux is a feature, not a bug. ‘A universal language,’ writes Yaguello, ‘is as impossible as perpetual motion.’ But when did futility ever get in the way of a good idea? The catalogue of invented tongues is more than just a cultural curio: it’s a monument, really, to the hubristic folly of human intelligence.

Originally published at https://www.spectator.co.uk.

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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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