Il poeta contadino e l’illusione della rivoluzione
Quando nell’ottobre del 1917 la Rivoluzione russa celebrò il suo trionfo il “poeta contadino” Sergej A. Esenin (1895–1925) vi aderì, (e molti come lui), con infantile entusiasmo.
Ma, a partire dal 1920, la delusione serpeggia nelle sue liriche: via via si trasmuta in angoscia, poi in disprezzo per la propria viltà sino alla maturazione dell’idea del suicidio, consumato a trenta anni, in una camera d’albergo a Leningrado.
La poesia che segue s’illumina alla tetra luce di quell’irreparabile esito finale, di sovrumana pietà.
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco…
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
verso il paese dov’è gioia e quiete.
Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere
le mie spoglie mortali per il viaggio.Care foreste di betulle!
Tu, terra! E ‘voi, sabbie delle pianure!
Dinanzi a questa folla di partenti
non ho forza di nascondere la mia malinconia.Ho amato troppo in questo mondo
tutto ciò che veste l’anima di carne .
Pace alle trèmule che, allargando i rami,
si sono specchiate nell’acqua rosea.Molti pensieri in silenzio ho meditato,
molte canzoni entro di me ho composto.
Felice io sono sulla cupa terra
di ciò che ho respirato e che ho vissuto.Felice di aver baciato le donne,
pestato i fiori, ruzzolato nell’erba,
di non aver mai battuto sul capo
le bestie, nostri fratelli minori.So che là non fioriscono boscaglie,
non stormisce la segala dal collo di cigno.
Perciò dinanzi a una folla di partenti
provo sempre un brivido.So che in quel paese non saranno
queste campagne biondeggiantill nella nebbia.
Anche perciò mi sono cari gli uomini
che vivono con me su questa terra.
Sergej Esenin: “Poesia russa del Novecento”, trad. di A. M. Ripellino, Feltrinelli, Milano 1960