Il “merito” non merita parole per 12 mila euro al mese
L’articolo che segue è stato scritto una ventina di anni fa dal Cardinale Gianfranco Ravasi. Merita, ( è il caso di dire!) di essere ri-pubblicato in questa occasione di cui parla la notizia qui sopra. Badate bene, io non ce l’ho affatto con l’interessato, lui è stato in gamba, davvero, bisogna riconoscerlo. L’ “essere in gamba”, però, non significa meritarsi qualcosa. Almeno nella maniera in cui la interpreta il Cardinale, nè tanto meno il poeta inglese S. T. Coleridge da lui citato con quella poesia. La ricordo bene quell’ode, faceva parte del programma di primo anno dei miei studi della lingua inglese. L’ho poi tante volte proposta ai miei studenti nel corso degli anni, ricordando spesso cosa dice il Siracide (10,28) in proposito: “Figlio, con modestia pensa al tuo onore e fatti valere secondo il tuo merito”. Merito e onore camminano insieme, quindi, si identificano, distinguendosi. Ieri, come oggi, come sempre, mai sarà possibile una cosa del genere. Oggi ne abbiamo, ancora una volta, la prova.
Sembra una storia del regno degli spiriti quando un uomo ottiene ciò che merita e merita ciò che ottiene. (Samuel T. Coleridge)
In questi ultimi anni, reagendo a un eccesso antitetico, ci si è riempiti la bocca della parola «merito», auspicando nella scuola e nella società la pratica di un’autentica «meritocrazia», A essere sinceri, non si può dire che il valore, la virtù o la competenza siano più premiati di prima. Resta, allora, intatta in tutto il suo valore la frase sopra citata, desunta dall’Ode alla malinconia (o «scoraggiamento», in inglese dejection) dello scrittore inglese Samuel T. Coleridge. Quante volte, infatti, viene spontaneo chiedersi davanti a certe carriere folgoranti e sfolgoranti: ma quali meriti, quali benemerenze o qualità ha mai questo signore baciato dal successo?
Per trovare giustizia in questo campo bisognerebbe proprio sperare in un «regno degli spiriti», come dice il poeta, cioè in un mondo ideale. È per questo che una delle regole importanti dell’ascesi (ma anche della nobiltà d’animo) è continuare a compiere il bene con rigore e dignità personale, nonostante l’assenza di gratificazione e di ricompensa, affidando solo a Dio che «vede cuore e reni» (come dice la Bibbia) il giudizio e il premio. Impudenza e arroganza sono, comunque, da denunciare, pur con la consapevolezza che non cambierà il modo di giudicare del mondo, come già amaramente annotava nel Seicento La Rochefoucauld: «Il mondo rende più spesso onore al falso merito di quanto non sia ingiusto col merito vero». E, allora, con costanza andiamo avanti lo stesso a praticare l’onestà, confidando in quell’arduo detto che dichiara essere la virtù premio a se stessa.
Testo tratto da: G. Ravasi, Breviario laico, Mondadori, 2005