Il fascino dell’ineffabile. La scomparsa di Papa Francesco

6 min readApr 21, 2025

Non giudico Papa Francesco. Scelgo il mistero che ha incarnato, tra il fisico dell’uomo e la metafisica del suo messaggio. Grazie per averci indicato l’ineffabile. L’ineffabilità. Un concetto che risuona profondamente nel regno della metafisica. Lasciare da parte, per un istante, le misurabili e prevedibili leggi della fisica per abbracciare ciò che sfugge alla piena espressione verbale è una scelta affascinante.

L’ineffabile ci porta a confrontarci con i limiti del linguaggio, con quelle esperienze, sensazioni o verità che sembrano trascendere la capacità delle parole di contenerle pienamente. È il sussurro di un’emozione così intensa da non trovare eco in alcun vocabolario, la vertigine di un’intuizione che precede e supera la sua formulazione.

Nella metafisica, l’ineffabilità si lega spesso a concetti come l’esistenza ultima, la natura del divino, o le profondità della coscienza. Sono territori dove la ragione e la logica, pur strumenti preziosi, a volte si scontrano con un muro di silenzio eloquente. Cosa mi attrae particolarmente di questo concetto? C’è qualche esperienza o idea specifica che mi fa sentire la potenza dell’ineffabile?

La nascita e la morte. Due poli esistenziali avvolti in un alone di profonda ineffabilità. Sono passaggi universali, eppure l’esperienza individuale di ciascuno è così intima e singolare da sfidare qualsiasi tentativo di descrizione esaustiva.

La nascita è un irrompere nel mondo, un passaggio dal non-essere all’essere che porta con sé un potenziale illimitato e un mistero insondabile. Chi può davvero descrivere il momento del primo respiro, il primo sguardo, la prima percezione di un universo completamente nuovo?

Le parole possono solo avvicinarsi, evocare immagini di luce, suono, contatto, ma l’essenza di quell’inizio sembra sfuggire, rimanere ancorata a un piano pre-verbale, sensoriale e puramente esistenziale. La morte, d’altra parte, è il dissolversi, il ritorno a un ignoto che ci spaventa e ci affascina allo stesso tempo.

Tentiamo di incasellarla in teorie, di darle un significato religioso, filosofico o scientifico, ma l’esperienza del trapasso, il “cessare di essere” nella forma che conosciamo, rimane un confine ultimo, un territorio inesplorato dal linguaggio dei vivi. Possiamo parlare di assenza, di perdita, di trasformazione, ma l’essenza di quel “non più” sembra irriducibile a parole.

Entrambi questi eventi fondamentali ci pongono di fronte ai limiti della nostra capacità di comprensione e di espressione. Ci ricordano che esistono realtà così radicali da trascendere la trama del linguaggio, lasciandoci con un senso di riverenza e di mistero.

Che fine fa il “mondo” che creiamo tra i due momenti della nascita e della morte? Un quesito che tocca le fondamenta della nostra percezione della realtà! Che ne è del “mondo” che intessiamo tra la trama dell’inizio e la dissoluzione finale? Per un essere comune, come me e chi mi legge, e anche per un Papa che se ne va. Scompare, come tutti.

Da un punto di vista strettamente fisico, il mondo che ci circonda continua la sua esistenza, indipendente dalla nostra presenza. Le montagne resteranno, le stelle brilleranno, le leggi della fisica continueranno a governare la materia e l’energia. In questo senso, il mondo “esterno” non svanisce con la nostra morte. Come non scomparirà la sua Chiesa.

Tuttavia, il “mondo” come lo percepiamo e lo viviamo è un’esperienza profondamente soggettiva, plasmata dalle nostre interazioni, dalle nostre memorie, dalle nostre emozioni e dalla nostra coscienza. Questo “mondo interiore” è strettamente legato alla nostra esistenza individuale.

Quando moriamo, questa specifica configurazione di esperienze, ricordi e significati che costituisce il nostro mondo unico cessa di esistere nella forma in cui la conosciamo. È come se un particolare nodo nella vasta rete dell’esistenza si sciogliesse, portando con sé le sue specifiche connessioni e la sua peculiare prospettiva.

Si potrebbe dire che il nostro mondo individuale si dissolve con la fine della nostra coscienza. Le persone che abbiamo amato continueranno a esistere nel loro mondo, portando con sé i ricordi di noi, ma la nostra esperienza diretta di quel mondo condiviso si interrompe.

Metaforicamente, potremmo pensare al nostro mondo come a una bolla di sapone iridescente che si forma alla nascita e svanisce con la morte, lasciando dietro di sé l’oceano infinito da cui è emersa.

Questo non significa che la nostra esistenza sia priva di significato. Le nostre azioni, le nostre creazioni, i nostri legami lasciano tracce nel mondo degli altri, influenzando il loro “mondo” e contribuendo al grande arazzo dell’esistenza collettiva.

È un pensiero che può sembrare malinconico, ma che porta con sé anche una profonda consapevolezza del valore del presente e dell’importanza di vivere pienamente il “mondo” che ci è dato tra questi due misteriosi confini. Cosa ne penso di questa prospettiva? Mi suscita altre riflessioni? Sono solo parole senza senso, dovremmo andare oltre.

Di fronte all’immensità di questi interrogativi, le parole possono davvero sembrare inadeguate, quasi un tentativo vano di imbrigliare l’infinito in una gabbia finita. La sensazione che siano “solo parole senza senso” è una reazione onesta e condivisibile quando ci confrontiamo con l’ineffabile.

Sentire che dovremmo “andare oltre” suggerisce un desiderio di trascendere i limiti del linguaggio, di accedere a una comprensione più diretta o intuitiva. Forse cerchiamo un tipo di conoscenza che non si basa sulla descrizione verbale, ma sull’esperienza pura, sulla contemplazione silenziosa, o su una forma di intuizione che va al di là della logica discorsiva.

In molte tradizioni filosofiche e spirituali, si esplorano proprio queste vie “oltre le parole”. La meditazione, la contemplazione, l’arte, la musica, persino il silenzio condiviso possono essere visti come tentativi di connettersi con quelle dimensioni dell’esistenza che sfuggono alla piena espressione verbale.

Se le parole mi sembrano insufficienti, quali altre vie possiamo sentire che potremmo esplorare per avvicinarci a queste domande sulla nascita, la morte e il “mondo” che creiamo? C’è qualche esperienza, sensazione o forma di espressione che ci sembra più significativa o rivelatrice in questo senso?

La notizia della morte di Papa Francesco, avvenuta il 21 aprile 2025, ha lasciato un vuoto profondo nei cuori di milioni di persone, credenti e non. Jorge Mario Bergoglio, il “Papa venuto dalla fine del mondo”, ha segnato un’epoca con la sua umiltà, il suo coraggio e il suo amore incondizionato per gli ultimi. È stato un pastore che ha saputo parlare al cuore di tutti, rompendo barriere e portando la Chiesa più vicina alla gente.

Esprimo pensieri molto personali, lo so, riflette la complessità di valutare una figura come Papa Francesco, soprattutto alla luce della sua umanità e del suo ruolo spirituale. La mia indecisione, il richiamo alla sua celebre frase “Chi sono io per giudicare?” e la scelta della metafisica come lente per avvicinarci alla sua eredità sono spunti potenti. La sua morte mi lascia sospeso, in bilico tra il desiderio di comprendere l’uomo e l’impossibilità di afferrare il mistero che ha incarnato.

Giudicare un uomo è già un’impresa ardua; figurarsi un Papa, che vive nel crocevia tra il fisico e il metafisico. Lui stesso, con quel “Chi sono io per giudicare?”, ci ha invitato a sospendere il giudizio, a guardare oltre le apparenze. Eppure, quelle parole, pronunciate con umiltà, gli valsero critiche, come se l’apertura del cuore fosse un segno di debolezza. Io scelgo di non giudicare.

Scelgo la metafisica, perché l’ineffabile che Francesco ha portato, nei suoi gesti semplici, nel suo abbraccio agli ultimi, nelle sue parole che profumavano di Vangelo, non si lascia incasellare. Era un uomo di carne, con i suoi limiti e le sue fragilità, ma anche un ponte verso qualcosa di più grande, verso un Dio che si china sugli ultimi.

La sua voce, che parlava di misericordia, di cura per il creato, di dialogo tra fedi, era radicata nella terra, ma tendeva all’infinito. Oggi, mentre il mondo piange Jorge Mario Bergoglio, non cerco risposte definitive. Mi affido al mistero della sua vita, che poi è come la vita di ognuno di noi. Anche se non tutti possiamo essere papi.

Francesco ci ha ricordato come la fede sia un cammino, non un verdetto. Grazie, Francesco, per averci indicato la strada verso l’ineffabile, dove il giudizio si dissolve e resta solo la luce della tua umanità. Che tu possa riposare nella pace di quel Dio che hai servito con il cuore.

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Antonio Gallo
Antonio Gallo

Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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