I libri del figlio del tipografo …

Antonio Gallo
9 min readDec 16, 2021

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I miei libri su GoodReads

Mi considero un dinosauro digitale, figlio di una famiglia di stampatori e tipografi meridionali. I libri che vedete qui sopra sono stati scritti da me e pubblicati nel corso di questo primo ventennio del terzo millennio. Il primo, “Il Testimone”, risale al 2002, l’ultimo “Il figlio del tipografo” è del 2018.

Sono libri cartacei, due sono anche digitali, in versione pdf, disponibili in Rete. Sei libri che documentano la mia passione per la comunicazione, una qualità essenziale e caratterizzante per ogni essere umano. Tutti pubblicati senza fini di lucro ma per interesse umano e sociale.

Mio Padre mi insegnò a leggere e scrivere con i caratteri mobili nella stanza della composizione della nostra piccola tipografia. Adesso che mi sorprendo a sfogliare questi libri, ricordo che lui ebbe il piacere di leggere soltanto il primo.

Non riesco nemmeno ad immaginare la sua faccia, lui tipografo stampatore gutenberghiano, se potesse non solo averli tra le mani oggi, ma anche leggerli in versione digitale nella Biblioteca in rete su GoodReads.

A questo solo pensiero mi rendo conto di come i cinquecento anni che intercorrono tra Gutenberg e noi equivalgono alla manciata di anni di questo ventennio che mi divide oggi dal tempo vissuto nella tipografia di famiglia paterna.

Mettiamo bene in chiaro una cosa molto importante. Non sono uno scrittore, non mi sono mai considerato tale, non sarei mai potuto esserlo. Tutto sommato, arrivato a questa età, posso ringraziare il cielo di non esserlo diventato.

Sappiamo tutti quanto fascino emani la scrittura, ma anche quante illusioni e pericoli essa possa provocare. La storia della letteratura, nelle sue varie forme e in tutte le lingue, nelle vite di tanti scrittori, artisti e poeti dimostrano quanto vera e pericolosa sia questa forma di dipendenza.

Eppure, io ho scritto sempre, anche per ragioni non chiaramente professionali. Continuo a farlo, per capire chi sono e cosa penso. La scrittura come soluzione al mistero dell’essere. Un fiume continuo di parole, idee, eventi, accadimenti, come quelli che scorrono nella vita di tutti i giorni, di tutti gli esseri viventi. Tutti vogliamo lasciare una traccia. Importante e significativo è farlo. In questa maniera la comunicazione diventa scrittura, la scrittura diventa messaggio, il messaggio prende forma, la forma diventa pagina, l’oggetto chiamato libro nasce come un corpo nuovo e vivo che comunica agli altri.

Per me è stato un processo tanto importante quanto decisivo per comprendere che comunicare è vivere. Chi può rivivere quei luoghi dove l’arte tipografica si è realizzata, materializzandosi in una realtà che viene magicamente ritrovata, non può intendere la scrittura come un mestiere, un profitto, un espediente per vivere.

Rimane un processo personale che chiamo piacere di comunicare, il piacere di sfogliare quei libri, rileggerli, criticarli. Essi rimangono oggetti della mente e del pensiero, legati a quel mondo antico chiamato “Arti Grafiche”.

Sono tutti stati stampati da un moderno tipografo diventato editore, figlio di un padre che è stato allievo di mio Padre in quella tipografia che fu la fucina degli anni in cui la stampa era fatta di piombo.

All’inizio degli anni Settanta, l’arrivo delle nuove tecnologie sconvolsero il mondo della comunicazione e ovviamente anche quelle della stampa. Il mestiere che era rimasto immutato per cinquecento anni, in pochi decenni si trasforma e trascina nell’oblio la storia e gli strumenti di ciò che era la manifestazione pratica di diverse qualità artigianali.

L’ arte tipografica si stava trasformando, sotto la spinta dei nuovi media, in qualcosa di profondamente diverso. Fu lo scotto che dovettero pagare mio Padre con i suoi fratelli delle “Arti Grafiche M. Gallo & Figli”, sotto gli attacchi non solo del tempo, ma anche della realtà umana ed economica del meridione, oltre quella della incacapacità di anticiparla e leggerla come una che sarebbe stata diversa.

L’arrivo del computer ha rimosso quel passato glorioso. Le ragioni della memoria forse vorrebbero tempi di maturazione molto più lenti. Forse non è sempre bene tagliare i ponti con il passato. Ma tant’è. La prova sta in questi libri. Confesso che sfogliando queste pagine, rivivo quel tempo vissuto tra le mura della nostra Tipografia in Piazza Municipio a Sarno.

Il mio pensiero ritorna a quei giorni del primo, difficile dopoguerra, alle condizioni economiche non facili, alle lunghe ore di lavoro che mio Padre trascorreva impiedi su quella macchina a far scorrere fogli e fogli su quelle “forme” composte di caratteri sui quali erano passati i cilindri impregnandoli di inchiostro.

Come fai a non ricordare quando mettevo insieme i caratteri di legno per formare le parole e mi sporcavo le mani. Ero contento di avere imparato qualche parola nuova. Nelle narici avverto ancora il “profumo/puzza” sia dell’inchiostro che del petrolio.

Memorie che non si cancellano tanto facilmente. Chi è arrivato a leggere fin qui potrà ritrovare ne “Il Figlio del Tipografo” un tempo che non è andato mai perduto, così come lo descrissi ne “Il Testimone”, il primo libro.

Non avrebbe mai dimenticato per tutto il resto della sua vita l’atmosfera di quel posto, divenuto poi un luogo della mente, un posto della memoria. Non era solo per l’odore del piombo e dell’inchiostro, tipico della tipografia. Ma anche per quello del petrolio, delle carte, del sudore umano nei giorni caldi dell’estate, e del fumo dei bracieri accesi per riscaldare gli ambienti nelle lunghe e fredde giornate invernali. Oggi, nel tempo delle reti e delle superstrade della comunicazione, in quel luogo, Alvano, vedeva e ricordava lui, un uomo, in piedi sulla grande rotativa, a prendere i fogli per farli scivolare sul rullo che li avrebbe fatti imprimere sulle forme di piombo collocate sul carrello che di sotto scorreva veloce. Sempre pronto a fischiettare un motivo, la sigaretta accesa poggiata sul banco accanto alla risma di carta da stampare, quell’uomo era il simbolo della creatività.

La ruota girava veloce, guidata dalla cinghia legata al grosso motore che trasmetteva all’ambiente un fragore cadenzato. Sembrava come il correre delle carrozze di un treno sulle sue rotaie. Per ore ed ore quell’uomo era capace di stare in piedi su quella sorta di piedistallo, come sulla tolda di comando di una nave, mentre tutt’intorno fremevano le attività della tipografia. Dietro la macchina, là dove scendevano i fogli ancora freschi di stampa, spesso Alvano si metteva a ‘pareggiare’, a sistemarli, cioè. Freschi ed odorosi non dovevano essere toccati. Le “forme” potevano essere quattro oppure otto, a seconda del formato del libro. Oppure una, come nel caso di un manifesto. E allora, la forma, era grande. Fatta di caratteri di piombo e di legno. Pazientemente allineati, l’uno dopo l’altro. Spazzolati col petrolio, prima che l’inchiostratore vi facesse scorrere i rulli. Il sapere prendeva forma e correva verso la vita. Alvano, seduto sullo sgabello dietro la macchina, era felice e si lasciava andare con gli occhi chiusi a sognare, accarezzato dal leggero venticello che i fogli, portati dalle stecche, gli soffiavano sul volto mentre scendevano. Immaginava che tutto ciò che era stato appena impresso dalla forma di piombo si trasferisse nella sua mente.

Potevano essere le pagine del libro che quel prete, stava scrivendo, sulla storia della sua città; i capitoli di quel grosso volume commissionato da un esperto di diritto tributario di Neapolis; oppure, ancora, il bollettino dei servizi del compartimento ferroviario. Lunghi elenchi di orari per partenze ed arrivi. Alvano si sorprendeva a pensare alle ore di studio del vecchio prete trascorse al tavolo per scrivere la storia di quel paese e di quella gente che egli vedeva ogni giorno ma non amava. A volte gli sembrava che i fogli scendessero troppo in fretta e lui non ce la faceva a tenere il passo, o meglio le mani, dietro ad essi. Lui gli chiedeva se le immagini dei clichés fossero chiare e leggibili. L’inchiostro, infatti, poteva essere troppo o troppo poco ed allora bisognava regolare il calamaio che serviva a dosare l’intensità della stampa.

Alvano capiva che qualcosa di importante accadeva in quei momenti di intenso lavoro. Almeno altri tre uomini erano addetti al funzionamento della rotativa. La tiratura era alta e la macchina doveva arrestarsi il meno possibile per non ritardare la consegna del lavoro. Quell’uomo in piedi, sempre allegro, pronto a fischiettare, con una sigaretta tra le dita, aveva una parte importante e decisiva. Era come se la conoscenza ed il sapere del mondo venissero prodotti in quel momento. Un percorso lungo e faticoso, un punto di arrivo sofferto e preciso: le parole, il pensiero che diventavano forma, oggetto, contenuto. Doveva poi essere distribuito agli altri, affinché anche loro sapessero, accettassero, prendessero parte alla comunicazione dei saperi, alla distribuzione della conoscenza, alla scoperta del mondo. Quell’uomo era suo padre …

La biblioteca del padre era la sua misura del tempo e dello spazio. Ogni volta che apriva quel piccolo mobile a libreria, dai vetri gialli ed opachi e guardava gli scaffali ripieni di libri, era una festa per i suoi occhi e per la sua fantasia. Allineati con cura, sistemati per grandezza, per autore, per editore, sempre che poteva, li prendeva, li toccava, ne palpava il dorso, se li rigirava tra le mani. Leggeva il retro della copertina, la presentazione sulla pattina, il frontespizio, inoltrandosi, ma non sempre, nella lettura dell’introduzione.

Pensava che un giorno li avrebbe letti tutti. Il padre chissà se li aveva letti. Axel Munthe, Erasmo da Rotterdam, Van Loon, F. Nietzsche, L. Yutang, A. Fraccaroli, C. A.. Cipolla, G. A.. Borgese, T. Mann, L.Tolstoi, F.Dostojewski, H. de Balzac, G. Comisso, J. London, E. A. Poe, A. Frateili, G. Papini, A. Huxley, J. Wassermann… Centinaia di titoli di libri, famosi, ancora oggi importanti, autori alla ribalta allora, diventati classici o dimenticati poi nel tempo. Li poteva sfogliare solo di nascosto, senza farsi vedere dalla madre, che lo avrebbe detto al padre. E poi le avrebbe prese. Lui, quando era di buon umore, gli permetteva di tirarli fuori dagli scaffali, di spolverarli e sistemarli come gli diceva.

Quelli gialli, la collana dei saggi della Bompiani. Quelli marroni della collana romantica Corbaccio-Dall’Oglio. Quelli verdi della letteratura mondiale della Medusa di Mondadori… Ognuno di essi rappresentava per Alvano una sfida ed un impegno alla conoscenza, alla ricerca, all’esplorazione di orizzonti diversi e lontani da quel piccolo mondo provinciale che lo circondava e lo soffocava. Quando sfogliava il libro intitolato “Così parlò Zarathustra”, e leggeva qualche pensiero, era affascinato dalle parole, ma non ne capiva il senso, restando preso dal mistero della loro semplicità. Un libro importante, l’avrebbe scoperto anni dopo, dalle molte pagine, con una lunga presentazione ed un ricco indice analitico.

A Zarathustra si affiancavano due altri tomi che senza dubbio dovevano essere importanti per suo padre. Uno era di M. G. Sarfatti dal titolo inequivocabile ‘Dux’. L’altro, altrettanto impegnativo, ‘Mein Kampf’ di un certo Adolf Hitler. Due versioni di quest’ultimo libro, una in italiano e l’altra in tedesco. Non che il padre di Alvano conoscesse la lingua germanica, ma si diceva che in tutte le case degli italiani, in quegli anni, si potevano trovare quei libri che poi sarebbero scomparsi non si sa bene come e perché. C’era anche un titolo che lo interessò molto per diverso tempo:“Introduzione alla stupidità umana”. Cominciò più volte a leggerlo, ma non riuscì mai a concluderne la lettura. Voleva cercare di capire come mai il mondo fosse così complesso, difficile, quasi sempre incomprensibile. Ma se quel volume di oltre quattrocento pagine era soltanto una introduzione, figurarsi poi un trattato su quell’argomento.

Cosi pensava Alvano con grande ingenuità. Ma non poteva o non sapeva capire. Soprattutto, non voleva addentrarsi in cose che non avrebbe poi amato molto neanche in seguito. I libri che lo attiravano erano, invece, quelli corredati da illustrazioni di luoghi, persone e personaggi. Come i libri di viaggio di M. Appellius, C. Tommaselli, J. Verne. L’Africa, l’India, il Tibet, il Nepal, la Cina, il Giappone erano le sue mete preferite. Ceylon, poi, era la sua passione. Un libro in particolare, intitolato: “Ceylon, l’isola delle donne belle” era un vero e proprio godimento per Alvano. Immagini di donne straordinarie dai capelli lunghi, neri e lisci, inghirlandate di fiori, di fronte all’obbiettivo, riprese lungo spiagge di sogno, ricamate da mari spumeggianti, con sullo sfondo riverberi di luci tropicali e piroghe lontane.

Quei seni turgidi, dai capezzoli marcati e scuri, al vento dei tropici, erano per Alvano un invito alla fuga dalla triste realtà che lo circondava, nel sogno dell’irreale e dell’immaginario. Non erano soltanto le pagine dei libri a farlo sognare, ma anche le immagini delle riviste che il padre aveva collezionato e rilegato nel corso degli anni. Grossi volumi della rivista più famosa del tempo, quella ‘Illustrazione Italiana’, con lunghi articoli sul passato regime, sugli eventi culturali, sulle cerimonie di quegli anni che lui aveva vissuto da anni ruggenti. Immagini che gli scorrevano davanti, pagina dopo pagina. Un mondo da scoprire, lontano, irraggiungibile. Il mondo degli adulti, il mondo che lui doveva conoscere bene perché concorreva col suo lavoro a crearlo, in un modo o in un altro. Era, infatti, compositore e legatore, ma era, soprattutto, un grande stampatore. Il posto più naturale dove si potesse trovare uno stampatore era, naturalmente fino a qualche anno fa, nella tipografia…

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Written by Antonio Gallo

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one. Nulla dies sine linea.

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