“Dizionario di una catastrofe”: un quarto di secolo è un quarto di vita
Ho ripreso tra le mani questo libro e mi sono reso conto che davvero la vita di ogni essere umano è fatta di parole come quelle che formano un dizionario. Quando decisi di scriverlo, venticinque anni fa, nel tentativo di mettere ordine nel caos che quell’evento della sera del 5 maggio 1998 aveva provocato ai piedi del sistema montagnoso che porta il nome di Saro, non mi resi conto che stavo scrivendo una parte della mia vita. Ma la cosa più importante fu il fatto che stavo condividendo quella esperienza con una grossa fetta della comunità alla quale appartenevo e di cui ancora oggi faccio parte.
Una esperienza quanto mai dolorosa. Mi proposi di scriverlo per reagire alla rabbia che la Natura aveva deciso di scagliare su di noi in una maniera tanto micidiale quanto impietosa. Oggi, a distanza di venticinque anni, lo riprendo tra le mani perché ritrovo nelle sue pagine una parte di me stesso. Un libro, tutto sommato, è sopratutto questo, una parte viva e attiva di chi decise di scriverlo e trasmettere i suoi pensieri a chi lo legge e lo chiama a condividere e testimoniare poi il suo vissuto. Ma questo libro è molto, molto di più di una memoria, un ricordo, un amarcord.
Ne sono stati scritti tanti sull’evento delle frane di Sarno. Restano nella storia di un ambiente naturale quale quello italiano di cui tutti parlano e scrivono, ma di cui nessuno sembra prendersene vera cura. A distanza di tanti anni, è un documento, una testimonianza, un quarto di secolo, un quarto di vita per fare confronti tra presente e passato, quello che fu scritto in quei drammatici momenti, quello che è stato fatto e resta ancora da fare.
Soliti interrogativi disattesi, ferite sempre aperte, illusioni trasformate in delusioni. Quando, in una notte da Apocalisse, fui costretto insieme alla mia famiglia, a scappare da quel posto che era diventato una vera e propria trappola per topi, a causa del furioso flusso della lava che era arrivata a livello dei primi piani delle abitazioni, decisi di conservare tutti i giornali e le riviste che riuscivo a reperire anche lontano da Sarno.
Per motivi professionali, mia moglie ed io avevamo accesso ai media stranieri in qualità di abbonati e accaniti lettori. L’eco dell’infausto evento fu molto forte a livello internazionale come si evince dalla lettura del libro. Conservo ancora molti inediti documenti, dimostrano quanto sia vero il noto detto che le strade dell’inferno sono pavimentate da buone intenzioni. Quanti sono stati i libri, i convegni, gli studi, le ricerche, i progetti scritti e discussi in questi ultimi venticinque anni? Quanti sono i disastri naturali e umani che si rinnovano periodicamente nel nostro Bel Paese? Quante sono le denunzie e i processi in merito a eventi di questo tipo?
Se ricordo bene è soltanto di qualche mese fa la pubblicazione di alcune sentenze riguardanti responsabilità ed indennizzi su quanto successe il 5 maggio del 1998. Quando regolarmente, mia moglie ed io, come numerosi altri concittadini e forestieri, percorriamo per un salutare footing quelle piste costruite come invasi-vasche (gli antichi regi lagni) ai piedi del Saro, a poca distanza da Episcopio, ci rendiamo conto del tempo perduto e ritrovato. Tutto resta come prima, sembra che nulla sia successo. Nessuna catastrofe. La natura continua a fare il suo corso.
Scorro le pagine del libro, rileggo quegli articoli nei quali si diceva che la speculazione, la mafia, la camorra, il malaffare, e tutto il male possibile del mondo era di Sarno. Bisognava abbattere tutti gli edifici costruiti in quei luoghi, cancellare Episcopio. Dalla A alla Z, le lettere del dizionario ci sono tutte, da Abergavenny a Zona Rossa. Chi si ricorda più di questa cittadina del Regno Unito? Circa duecento voci parlano da un quarto di secolo a un quarto di vita.
Una generazione è scomparsa, una nuova è apparsa, quella del nuovo millennio. Ma sapranno ben poco di quello che accadde quella notte. Sì, è vero, oggi il servizio di allerta meteo è molto migliorato, le previsioni sistematiche del tempo sono digitali e satellitari, non è più il tempo di quando “non si può non sapere” che madre Natura è sempre pronta ad affermare che “la sua più grande invenzione è la Morte”, come ha scritto il fisico e biologo francese Pierre Lecomte du Nouÿche.
La Morte fece del suo meglio in quelle drammatiche ore, creando la Spoon River di Sarno. All’inizio del libro, sotto il titolo, si leggono due citazioni che mi piace qui ricordare per far capire a chi legge, oggi, a distanza di tanto tempo, il valore della continuità e dell’impegno morale che dovrebbero caratterizzare i comportamenti degli uomini. La vita non è davvero uno scherzo, la si può riassumere in solo tre parole (in inglese), in una soltanto, in lingua italiana: “continua”. Ma il costo che dobbiamo pagare rimane alto. Come sempre, sono sempre i deboli a pagare.
Quella sera del 5 maggio la ricordò nella migliore maniera il mio grande amico e poeta di Episcopio Gino De Filippo con quella sua poesia che inizia con questi due versi: “Venne dopo il sole. Prima venne la morte …” Il racconto della memoria inizia così partendo dalla cittadina gemella Abergavenny con un abbracciati, in ricordo di un evento simile ad Aberfan. Il viaggio inizia tra abusi, abusivi, abusivismo e accuse, annientati da bombe d’acqua, senza che sia stato dato alcun segnale di allarme. Inizia la solita alluvione mediatica. Dal pizzo di Alvano scorrono le colpe degli uomini in un ambiente nel quale i politici hanno sempre navigato come fu il caso di Pietro Amendola, deputato del PCI, figlio di Giovanni Amendola, il quale parlò delle frane di Sarno sin dal 1948. Arrivarono anche gli Americani per dare una mano ad una amministrazione che sembra aver perduto la sua anima. Lo denuncia anche Lucia Annunziata, giornalista e scrittrice di origini sarnesi, la quale non perde l’occasione per scrivere come hanno ridotto la sua Sarno. Scriverà anche un libro, uno dei tanti in arrivo. Gli argomenti non mancano come ad esempio l’immancabile antimafia, scomunicata dal pacifico parroco della chiesa di San Michele don Antonio Calabrese. Bisognava fare presto senza arronzare, anche se nessuno sa più ascoltare. Se lo dice Francesco Alberoni sul Corriere bisogna credergli altrimenti si cade nell’autolesionismo come scrive Giorgio Bocca sull’Espresso. Nella bolgia dantesca in cui ci troviamo, le autorità di bacino sono i fantasmi del territorio, mentre Eugenio Scalfari scrive di una bambina scossa ancora dalla paura, nello stadio a lutto la piccola Stefania riposa nella sua bara bianca. Bruno Vespa intervista Franco Barberi il quale dice che 23 milioni di Italiani sono a rischio, mentre il mio sopravissuto ex-alunno Roberto Robustelli viene conteso dalla Chiesa e Bertinotti. I bimbi hanno bisogno di psicologi perchè sono sotto choc, per la difesa del suolo ci vuole una bonifica, come la sapevano fare i Borboni prevenendo le calamità naturali. Intanto dal fango spuntano anche le pistole della camorra, e dal nord Italia arrivano anche cartoline con insulti agli alluvionati con la scritta che “duecento camorristi” sono stati schiacciati dalle frane. Il sindaco Basile e il Vescovo protestano ma la frana è una catastrofe politica. Sembra che si sia perso il riferimento del centro, nemmeno la cibernetica del territorio è in grado di spiegare quello che è accaduto. Al cimitero esplode la rabbia mancano i becchini, mentre è giusto fare una riflessione su alcume coincidenze significative. E’ necessario scovare i colpevoli, non basta il computer a spiare la montagna che ha fatto tremare anche la cooperativa costruita proprio ai piedi di Alvano. Le crepe sono tante, anche Lucia Annunziata denuncia la sua crepa, con la quale dà il titolo al suo libro per l’occasione. La cronaca ci fa sapere che anche il deputato di Sarno Antonio Rizzo ha qualcosa da dire e lo dice in una intervista mentre i bambini su Repubblica scrivono sul dolore e dicono che Dio non ci vuole più bene. Il disastro ormai è chiaramente colposo, il disinteresse della gente è scontato, dei dispersi non si hanno più speranze. Il dolore è stampato sui volti, l’unica fortezza è il Duomo diventato rifugio nella notte della morte. Interviene perfino il prestigioso The Economist che ci tiene a differenziare tra la mano di Dio e quella degli uomini mentre i camorristi si fregano le mani. Quello che manca è la capacità di educare i cittadini a fronteggiare gli eventi. Non saranno gli uccelli di acciaio, gli elicotteri, a salvare la gente con le loro ali rotanti. Anche l’Europa, comunque, fa sentire la sua presenza, alla quale si affianca giustamente anche il nostro esercito. La grande fuga segna l’evacuazione anche se non c’è un piano che preveda come/cosa fare. Rimane solo teorico e lo scrive il Corriere della Sera. Il fango è dappertutto ed è duro da smaltire quando si indurisce. Niente di nuovo, a dire il vero, il fiume che dà il nome alla città si sa che è nero di fango da tempo, il primo malato. La rivista FOCUS, nella sua edizione tedesca, scrive che ad essere una frana è tutta l’Italia. I colpevoli sono anche il fuoco e il cemento con i quali hanno tentato di costruire un futuro che poi è stato sepolto in metri di fango. Molti sono i ricordi di precedenti tragedie come quella di cui scrisse Alfonso Gatto nel 1954 con l’alluvione di di Salerno e Costiera. Ma questa gente è stata sempre orfana di Genio Civile, le ragioni della geologia sono state sempre ignorate da un governo centrale sempre spaccato. Lo testimonia e lo scrive anche The Guardian che proclama l’Italia terra da Guinness dei primati. Happening è la parola chiave per comprendere che questa sarà senza dubbio un annus horribilis, come scrive l’esperto Mario Tozzi nel suo libro. L’idrogeologia non perdona in una terra dove pullulano le contraddizioni per ogni imprenditore che voglia fare il suo lavoro. Gli incendi sono un male incomune tra l’indifferenza e le inondazioni come scrivono The Independent e l’ambasciatore Sergio Romano. Legambiente ha consegnato al magistrato un dossier che avvertiva del pericolo nella foresta delle leggi e licenze tra lettere, lezioni e libri che non mancano mai. Indro Montanelli ha parlato di Sindrome Sarno, presentando a Milano al Circolo della Stampa il libro “La Crepa” della pseudo sarnese Lucia Annunziata. Non ha risposto alle lettere che gli sono state inviate alla sua “stanza” dopo di aver scritto che la frazione di Episcopio dovrebbe essere abbattuta dopo quello che è accaduto. I tanti libri pubblicati segnalano la morte della città perchè a tre mesi dal disastro nemmeno una lira è arrivata. Mentre a Sarno e Quindici si muore, a Roma si litiga nella tragica concomitanza tra i festeggiamenti per l’Euro e la tragedia della frana. I giornali si chiedono se per caso i morti di Sarno sono vittime di Maastricht mentre ormai è chiaro che nel nostro Bel Paese ci sono posti dove vivere è un rischio, come scrive Il Mondo. Intanto il magistrato procuratore Sessa dichiara di non poter avvisare chi indaga perchè se mette i nomi a registro li ammazzano. La mappa delle frane sembra ormai chiara e non mancano le mascalzonate come nella vignetta di Forattini su Panorama: “Siamo nella merda, ma è merda di sinistra!”. In un mezzogiorno di fango si diventa indifferenti. L’inchiesta de Il Mondo dimostra che vivere da queste parti è sempre un rischio. Anche se non ci sono monsoni, la montagna di Sarno non è affatto incantata. La natura non ostacola il corso umano delle cose e si celebrano anche nozze mentre continua la conta dei dispersi sui quali tutti danno i numeri. Andare oltre l’odissea dell’ospedale non è cosa facile. La ministra Rosy Bindi promette un nuovo ospedale in due anni. Manterrà la promessa strappando alla frana le tracce del suo passato. Sarno non potrà continuare ad essere una città abusiva dove l’unica legge è quella dei clan, senza un piano regolatore. La pioggia e le polemiche fanno pensare a Sarno come si pensa all’antica Pompei. Nella conta dei morti e nella ricerca dei superstiti il preside Gaetano Milone e il dottore Raffaele Catalano mancano all’appello. Il procuratore conferma che i morti sono stati uccisi da uno Stato latitante. Viene fuori l’agghiacciante profezia di una lettera inviata al Genio Civile. Ma non è soltanto Sarno a piangere c’è anche Quindici, mentre continua a regnare la rabbia per la confusione al potere. Non manca mai la retorica del potere, il retroscena di una previsione, l’illusione di una ricostruzione. Una giovane docente sarnese Roberta Morosini, giovane docente sarnese in Canada, difende l’onore del suo paese dagli attacchi della stampa internazionale. In quell’oceano di fango emerge il superstite Roberto Robustelli, redivivo dopo tre giorni: il sopravvissuto alla faccia degli sciacalli e degli scomparsi in un silenzio assordante tra pianti e grazie a’ Maronna. Chi è sotto attacco è il sindaco che lotta per essere fuori non solo dal fango ma anche dalla camorra e dalle sue responsabilità. Sarà per lui una lunga “via crucis” nella vana speranza di una difficile solidarietà. La Spoon River sarnese ha una risonanza mondiale che durerà a lungo. Tante sono le storie di rabbia e di speranze, sono le ferite di un eterno sud, abitato da terroni, abusivisti, sanguinari e dimenticati dall’altra Italia in una Valle del Sarno tanto antica quanto misteriosa. Alto si leva la voce piena di rabbia del Vescovo di Sarno in difesa di questi morti annunciati che qualcuno se li porta sulla coscienza. Vibrano le coscienze mentre qualcuno guarda il Vesuvio di fronte ad Alvano e pensa alle vibrazioni della Natura.
Difficile dire cosa resta di quei giorni. Forse solo la memoria di chi ha vissuto quel quarto di secolo, che è diventato un quarto di vita, potrà dirlo. Forse solo i versi finali della poesia di Gino De Filippo che ho citato all’inizio potranno alleviare il dolore di quei giorni:
“Non basteranno tutti i fiori del mondo/Per le morti acerbe/ Nè basteranno i marmi scolpiti/A sanare le piaghe delle madri./ Non bastano neppure le sere bugiarde/Fatte di babeliche parole!/Piuttosto, domani/Portino fra le zolle martoriate/Il seme buono di nuovi amori.”