Beato chi sa ridere di se stesso. Non finirà mai di divertirsi.
Thomas More, è stato un politico, umanista, e santo inglese. Nato a Londra il 7 febbraio 1478, è ricordato per il suo rifiuto di accettare l’Atto di Supremazia, con cui Enrico VIII si proclamava capo della Chiesa d’Inghilterra, e per il suo successivo arresto, processo e condanna a morte. Morì decapitato il 6 luglio 1535. È stato beatificato da papa Leone XIII nel 1886 e canonizzato nel 1935. È anche noto per il suo capolavoro “Utopia”, pubblicato nel 1516, in cui descrive un’isola ideale con un sistema politico ed economico basato sull’uguaglianza e sulla giustizia. La sua figura è stata oggetto di venerazione sia da parte della Chiesa cattolica che da quella anglicana. Era noto anche per il suo senso dell’umorismo. Era un suo tratto caratteriale, oltre che un metodo: «Mi si rimprovera di mescolare battute, facezie e parole scherzose con i temi più seri. Credo che si possa dire la verità ridendo. Di certo si addice meglio al laico, quale io sono, trasmettere il proprio pensiero in modo allegro e brioso, piuttosto che in modo serio e solenne, come fanno i predicatori».
Il suo umorismo era espressione di una gioia profonda alimentata dalla fede. Mentre saliva sul patibolo, chiese all’ufficiale che lo accompagnava: «per quanto riguarda la discesa, lasciami fare da solo». Poi consigliò al boia di mirare bene perché aveva il collo un po’ corto, e una volta messa la testa sul ceppo, disse ancora scherzando di preservare la barba che gli era cresciuta durante la sua prigionia nella torre di Londra: «Essa non ha tradito, quindi non deve essere tagliata».
Non c’è che dire: “Beati quelli che sanno ridere di se stessi perchè non finiranno mai di divertirsi”. Una frase a lui attribuita. Con il tempo ho imparato a seguire questo consiglio. Va ricordato che Tommaso Moro, l’uomo che tra le altre cose inventò la parola “utopia”, l’hanno fatto beato e poi santo. Chissà quanto si starà divertendo nell’altra vita, con la sua testa tagliata, magari sotto il braccio. Una testa che ha una storia che merita di essere raccontata. Essa venne, infatti, esposta su una picca alla Torre di Londra. La figlia la recuperò, corrompendo un guardiano e la custodì per molto tempo. Per questo fu anche imprigionata.
Teste come queste hanno fatto la storia. Non è il caso delle altre due che corredano questo post che pure hanno una loro storia. Si tratta soltanto di autoironia e di saper ridere di se stessi. Non è detto poi che, chi si considera un dinosauro, non sappia ridere e sorridere. Ma non voglio essere troppo serioso, anche se è in gioco la mia persona. Questo volto di bambino qui di seguito sono io.
Non ricordo assolutamente nulla di questa foto. Dovevo avere non più di un paio di anni. Mi sono “ritagliato” la testa per metterla a confronto con l’altra. Non quella di Tommaso Moro che ho conosciuto soltanto a scuola. Vi lascio immaginare il vestitino che indossavo. Bianco, forse beige o color crema, pantaloncini corti, calzini arrotolati, scarpette dalla punta consunta che segnalano l’irrequietezza del tempo, seduto su uno degli scanni dei fotografi di un tempo chiamati “puff”, il “cocco” in fronte, i piedini incrociati. Il fotografo dovette lavorarci un bel pò insieme a mia mamma prima di scattare questa immagine. Ecco chi ero circa ottanta anni fa.
Ma se mi chiedete cosa pensavo vi direi una bugia. Solo Dio sapeva quello che poi sarei stato. Ora sto qui soltanto a mettere insieme i pezzi del mio vissuto. Non sono in grado di dire nemmeno quando, dove e perchè venne fatta la foto. Mio padre e mia madre potrebbero dirlo, non ho ormai loro notizie da tempo. In attesa di rivederli, prima o poi dovrà accadere di rincontrarci. Essi sanno e ricordano tutto.
Forse era Pozzuoli, Tramonti, Sarno o Napoli, ma questo conta poco. Tutta una serie di risposte a questi interrogativi si scatena, man mano che scorrono davanti ai miei occhi le scene e gli eventi del tempo passato. Tempo perduto? Non so. Penso sia inutile fare questa ricerca. Chi avrebbe mai saputo/potuto immaginare che a distanza di diversi decenni, l’altro giorno, mi sarei ritagliato l’altra immagine presa in una improvvisa ed inaspettata serie di selfie fatti in un momento di gioco?
Chi sono io oggi? Chi sono stato? Cosa sono diventato? I soliti brutali interrogativi con quel finale diabolico “perchè?” Insomma, alla ricerca del senso, sfidando il ridicolo con una smorfia che caratterizza il mio volto. Come per dire alla Pirandello: “Ma non è una cosa seria”. Alla tua età poi. Ma è proprio ora che ho scoperto l’autoironia. Una qualità troppo spesso sottovalutata, che ha invece funzioni estremamente positive nella nostra comunicazione e nelle relazioni con gli altri.
Sui social è più facile riuscire a prendersi in giro, ma non sempre le ripercussioni sono felici, il saper ridere di sé sia sul Web che nella vita reale è quasi un’arte. L’esigenza di essere veloci e accattivanti allo stesso tempo induce allo scherzo, che, tuttavia, è per lo più uno scherzare su se stessi. Ma, ancora una volta, non tutti lo sanno fare. Ma che cos’è, realmente, l’autoironia? E a cosa serve? Per definizione è la capacità di ridere di se stessi, ed è una qualità innata nella nostra personalità. Eppure la si può anche acquisire nel tempo, una volta che ci si rende veramente conto di quanti siano i vantaggi del poter prendere in giro non solo gli altri, ma prima di tutto se stessi.
“Beato chi sa ridere di se stesso, perché non finirà mai di divertirsi”, diceva Sant’Agostino. E continuò Herman Hesse: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere sul serio la propria persona”.
Psicologicamente, l’autoironia comporta diverse riflessioni. Innanzitutto, è da sottolineare il carattere di leggerezza che il ridere di sé comporta. È una leggerezza del tutto sana, non ha niente a che fare con la superficialità. È capace, infatti, di creare un dialogo tra le persone, di reciproco agio, perfino di maggior intimità. Di fronte a qualcuno capace di prendere in giro i propri limiti, siamo portati di fatto a fare altrettanto: a svelare i nostri difetti e a raccontare le nostre esperienze con l’intento di compartecipare alla vita altrui.
Si accorciano le distanze, quindi, e non solo. Si instaura un confronto maggiormente improntato alla reciproca stima. Non cercare di dimostrarsi perfetti consente al nostro interlocutore di “abbassare la guardia” e fidarsi di più. Fidarsi a raccontare le personali imperfezioni. Imperfezioni che, a questo livello di vicinanza emotiva, si ridimensionano. Smettono di essere veri e propri difetti. Si smussano le critiche altrui e, soprattutto, siamo in grado di interpretarle ora come osservazioni da ascoltare e da accettare per poterci migliorare.
Un’altro aspetto molto importante dell’autoironia diventa quello di ritrovare coraggio e fiducia in se stessi. Prendersi in giro da soli è psicologicamente la prima arma che abbiamo per sfuggire alla timidezza o al senso di vergogna, soprattutto quando ci si sente insicuri e l’autostima traballa. E’ anticipare, infatti, qualsiasi giudizio altrui ci possa venire poi posto, mostrandoci consapevoli di noi fino a giungere perfino ad azzittire queste critiche.
Giudizi e disapprovazione spesso sono dettati da emozioni di invidia, di gelosia, di superbia: sapersi porre in ridere annulla immediatamente il carattere eccessivamente competitivo della relazione e, anzi, spesso tramuta il “nemico” in un complice. Senza imbarazzi e sentimenti di inadeguatezza, con molta più simpatia reciproca.
Quella vergogna e bassa autostima iniziale si tramuta con estrema facilità in sicurezza personale e maturità. Sono solo le persone più intelligenti quelle che scelgono l’utoironia, tant’è che spesso questa è proprio una delle qualità vincenti per un Leader. Viene dominato l’ego e l’autorità sterile di una persona, che diventa capace di giocare con sé e con gli altri sviluppando una forte empatia. Esattamente quella virtù, l’empatia, che sta alla base del carattere vincente della leadership: autorevolezza e continuo confronto con opinioni ed emozioni altrui.
Sono, dunque, solo le persone forti a saper ridere di sé? Sì, certo, anche se ironici si può diventarlo. Perché riuscire a fare autoironia significa aver maturato coscienza e consapevolezza della propria personalità, inclusa ogni fragilità. Saper guardare indietro, pensando ad eventi vissuti nella dimensione del tempo, e saperli misurare con quello attuale, significa riviverli in una luce del tutto diversa, se non opposta. L’elemento che si credeva tragico si trasforma quasi in comico. Ci vien da sorridere se non proprio ridere.
Ridere fa bene al corpo, e non è uno scherzo. Oltre ad essere il miglior collante per le relazioni umane, lo è anche con la relazione che ognuno di noi deve avere con se stessi. A livello fisiologico, il riso/sorriso è un’espressione del tutto incontrollabile, ed è auspicabile che sorga e nasca per rivedere occasioni di rabbia o di ira, di conflitto e di contrasto.
Un comportamento del genere esprime genuinità, soprattutto si rivela il miglior antidepressivo naturale. Ridendo aumentano le endorfine e, in particolar modo, la dopamina, ovvero l’ormone del benessere che agisce da vero e proprio antidolorifico. Si innalza la soglia del dolore fisico perché le contratture muscolari inconsce — dovute principalmente ad una somatizzazione dello stress — si rilasciano. Potremmo dire che “si ritrova il tempo perduto”.
Ho letto che alcuni studi sulla risata di un solo minuto, una risata autentica, equivale a ben 45 minuti di massaggi rilassanti su tutti i muscoli dell’organismo. A livello cardiaco, poi, avviene un subitaneo aumento delle pulsazioni: ne consegue una maggior ossigenazione del sangue e un innalzamento vero e proprio delle difese immunitarie. Ridere di sé, insomma, non solo crea empatia, simpatia, sicurezza in se stessi, ma è un vero e proprio toccasana per il nostro sistema immunitario.
Ma come si fa a diventare autoironici? Occorre spezzare la rigidità del pensiero logico deduttivo, quello che pare il più coerente e ragionevole perché va in genere verso il senso comune. Provare ad andare controcorrente, mettendo in moto il Pensiero Laterale. Quello che spiazza, stupisce, ferma il flusso dell’attenzione proprio perché va in senso contrario. E appare irriverente, proprio come il saper ridere di sé. Non perdere mai di vista quelle fatidiche domande chi-cosa-quando-dove-perchè rivolte prima a se stessi e poi alla realtà che ci circonda. Facendole, si scopriranno sempre risposte diverse. Ci sarà soltanto da riderci su. Senza riuscire mai a capire il “perchè” …