Basta la parola: “apofatismo”
Se dico che nel mondo di oggi mi sento “apofatico”, intendo dire che provo una difficoltà o un’incapacità a esprimere o comprendere appieno la realtà, la verità o la natura delle cose attraverso il linguaggio e i concetti tradizionali.
L’aggettivo “apofatico” deriva dalla teologia apofatica, un approccio teologico che cerca di conoscere Dio descrivendolo per ciò che non è, piuttosto che per ciò che è.
Questo perché si ritiene che la natura divina trascenda ogni definizione e categoria umana. Trasportando questo concetto alla nostre esperienze nel mondo di oggi, possiamo sentirci proprio così.
La complessità del mondo ci sembra inafferrabile. Le informazioni sono sovrabbondanti, le dinamiche sociali, politiche ed economiche sono intricate e in rapido cambiamento, rendendo difficile una comprensione chiara e definitiva.
Il linguaggio ci sembra inadeguato. Sentiamo che le parole a disposizione non riescono a catturare la pienezza della nostra esperienza interiore o la complessità del mondo esterno. Le definizioni appaiono limitanti e non esaustive.
Proviamo un senso di mistero o trascendenza. Potremmo percepire che ci sono aspetti della realtà che vanno oltre la nostra capacità di concettualizzazione e verbalizzazione.
Sperimentiamo una difficoltà nel trovare un significato definitivo. In un mondo in continua evoluzione e con molteplici prospettive, potremmo faticare a trovare risposte chiare e univoche alle grandi domande esistenziali.
Ci sentiamo disorientati dalla sovrabbondanza di informazioni e opinioni. La costante esposizione a diverse narrazioni e interpretazioni può rendere difficile discernere la “verità” e farci sentire incapaci di esprimere un giudizio definitivo.
Sentirci “apofatici” nel mondo di oggi suggerisce una sensazione di limite del linguaggio e dei concetti nel descrivere e comprendere pienamente la realtà che ci circonda e la tua esperienza in essa.
È un po’ come sentire che c’è “qualcosa di più” che sfugge alle parole. Il quadro di Kandinsky dice tutto senza parole.
“Le parole sopravvivono ai sistemi perchè vivono di loro stesse: sono fuochi di memoria, segnali di trasmissione, transiti tra passato e presente, ancoraggi per evitare derive, non certo approdi definitivi, ma porti sicuri nel mare aperto della verità. Le parole, com’è noto, sono sapienti di per sè e per questo, ogni volta, prima ancora di pronunziarle bisognerebbe ascoltarle: come all’inizio. Infatti, non sono nostre, ma ci sono state donate, le abbiamo apprese.
Perchè non suonino vane è necessario che non se perda l’eco profonda, che nel dirle si sia ancora capaci di risentirle, quasi a trattenerle, per evitare che con il suono ne svanisca anche i senso. La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia e per molti versi l’ha preparata: in essa, poi, le parole sono maturate come frutti, si sono fissate in idee, si sono trasformate in concetti.
Variamente definite, hanno acquisito spessore e pur rimanendo le stesse nel corso del tempo sono divenute polisemiche, in taluni casi anche equivoche. Una stratificazione di significati tutta da indagare. Le parole della filosofia, come del resto tutte le parole, sono poi vincolate dalla logica del contesto, ma, ora, nell’attenuarsi dei vincoli di tradizione hanno acquistato una loro singolare libertà perchè nessuno più ha l’autorità di sottoporle a una previa restrizione.
Non si sono affatto sgravate del passato, ma sono più che mai feconde in forza di quel passato: eccedono se stesse per un sovraccarico di storia che mettono a disposizione senza ipoteche per la più ampia e e libera interpretazione.
Per fare una buona filosofia basta, quindi, meditare sulle sue parole, seguirle nelle loro peripezie, procedere a una loro delucidatio, vincolarle di nuovo a più alti e differenziati livelli di definizione. Consapevoli, nel far questo, di prendere decisioni su di esse, di fare, appunto, teoria.
Le parole, poi, sono depositi di sapienza, sono tradizione e perciò garanzia di continuità pur nella variazione dei significati: certo, per investigare, scoprire, bisogna disfarsi del peso del passato, ma il già noto se non costringe sostiene, rassicura, è piattaforma per il futuro, è possibilità di mettersi al riparo se si perde la rotta e si fa naufragio.”
Salvatore Natoli:
“Le parole della filosofia o dell’arte di meditare”,
Feltrinelli, Milano, 2004